Pubblicato
il 11 aprile 2006 La Voce di Romagna a pagina 41
di Simone Mariotti
Se i napoletani riescono a farti ridere usando la loro
arte melodrammatica e un po' piagnona, se i romani per raggiungere lo
scopo devono ricorrere alla loro carica burina e i milanesi un po' al
cinismo ironico, i fiorentini. decisamente più colti, riescono a trasformare
ogni situazione in un motivo per prenderti un po' per il culo, ma a toccarti
il cuore allo stesso tempo. E Daniele Marcori rappresenta benissimo quella
categoria di artisti che sono stati allattati sotto il campanile di Giotto.
Qualche giorno fa Alessandro Carli su questo giornale ha presentato il
lavoro teatrale che Marcori, con la compagnia AttiMatti di Riccione, ha
portato in scena in questo fine settimana al Teatro del Mare, "La cantatrice
calva", il classico di Eugène Ionesco.
Conosco Daniele da diversi anni e sono andato con piacere a vedere la
prima. E al di là delle interpretazioni che si possono dare al testo,
c'è stato un qualcosa di straordinariamente attuale nel vedere quegli
attori sul palco.
Probabilmente, in questo tipo di teatro un po' metafisico,
ognuno trasforma le sensazioni che riceve dalla scena in qualcosa che
assomiglia alle proiezioni di una parte della propria interiorità, della
propria difficoltà di essere e di interagire. Il susseguirsi di ansia
e calma, di alti e bassi, di abbracci e litigi, di errori a cui non si
riesce a porre rimedio, credo abbiano molto a che fare con la nostra quotidianità.
Ma sembrava che l'opera, da vero classico, avesse anche un'altro obiettivo
immediato da colpire. E per uno di quei misteri dell'esistenza, quelli
che fanno si che alla fine tutto torni, le esigenze di cartellone del
teatro hanno fissato questa commedia proprio per il 7 e l'8 aprile.
I personaggi sulla scena si inseguivano vicendevolmente quasi senza distinzioni
(avversari specchio gli uni degli altri), in un crescendo di giochi verbali,
ripetitivi, contradditori, a volte ipnotici, fino ad essere insopportabili.
Si parte seduti, piattamente calmi, quasi seguendo delle regole che ingessano
il corpo e la parola.
Poi viene lanciato un sasso nella monotonia. Ed è l'incomprensione, l'incapacità
di comunicare, accompagnata da un desiderio recondito ed ossessivo di
riuscire però a trasmettere qualcosa che non è morto, che è un gran peccato
che resti schiacciato dalla paura e dal nonsense, magari proprio in uno
dei rari momenti di silenzio vivo.
Poi le urla, gli insulti, più o meno velati, la voglia di prevalere. Ed
un profetico finale con una gara convulsa e folle a chi fa la voce più
grossa, ma più inutile, e al tempo stesso la consapevolezza di essere
solo uno dei tanti, e il desiderio di riuscire a farsi amare. Finita la
"competizione-sfogo" tutto torna alla normalità, da capo, piatti come
se niente fosse stato, forse. Vi ricorda qualcosa di quello che il popolo
italiano ha vissuto nelle ultime settimane?
Almeno gli spettatori in sala (colpo di genio di Daniele) si sono potuti
godere un bel finale con le musiche dei mitici Abba, proprio negli stessi
identici istanti in cui chi, rimasto a casa, si sorbiva, tapino, l'ennesimo
appello elettorale anticomunicativo dei nostri gerontocrati. C'è però
un'altra differenza sostanziale: i ragazzi di AttiMatti li si sarebbe
stati a sentire volentieri ancora per un bel po'.