Pubblicato il 20 settembre 2006 su La Voce di Romagna
in prima pagina
di Simone Mariotti
In principio era il "melting pot", ovvero un grande
pentolone in cui tutte le culture si sarebbero dovute mischiare, assimilare,
integrare. A inizio Novecento Teddy Roosevelt ne fu forse il primo grande profeta
(fu folgorato il 5 ottobre 1908, assistendo allo spettacolo teatrale The Melting
Pot di Israel Zangwill), ma ancora nel 1969 non aveva prodotto troppi risultati
concreti, perlomeno tra la parte della popolazione più difficile, i neri,
ed un film poco convincente come "Indovina chi viene a cena?" faceva
tranquillamente scandalo. Oltretutto: e se Sidney Poitier, invece che un genio
della medicina, fosse stato un innamoratissimo impiegato delle poste?
Fallito il tentativo utopistico di fondere come se nulla fosse culture tra loro
diversissime, come per esempio quelle cinese e afroamericana, quegli stati che
per primi avevano perseguito l'idea del melting pot, Stati Uniti, Australia
e Canada, passarono dagli anni sessanta e settanta al tentativo del multiculturalismo.
Il multiculturalismo partiva dall'idea di non annullare le culture in un unico
brodo, ma di farle convivere anche senza integrazione con la cultura ospitante.
Anche questo sistema però, se lasciato a se stesso e senza paletti, può
provocare gravi, temporanei deragliamenti. Anche perché qualcuno ha pensato,
o ha fatto pensare agli immigrati di turno, quello che teoricamente non stava
scritto da nessuna parte, e cioè che multiculturalismo volesse dire:
ogni cultura ha i suoi spazi, ed ognuno fa quello che vuole.
Ora, dovendo coabitare per motivi storici con minoranze appartenenti ad altre
culture, e che iniziano a divenire numerose (mettetevi il cuore in pace: non
li potrà fermare nessuno, chi lo pensa è un illuso e storicamente
piuttosto ignorante), una strada tocca seguirla. Escludendo di porre un carro
armato alle frontiere ed iniziare a fare fuoco al primo che passa (soluzione
efficace di breve periodo, un po' "problematica" nel lungo), anche
andare riproporre il melting pot, come taluni sostengono, credo sia vagamente
folle.
Prendiamo una comunità, ospite in un paese straniero, che mantiene la
sua religione, che continua a parlare prevalentemente la sua lingua, che rifiuta
prevalentemente i matrimoni interetnici, che si nutre secondo la propria tradizione
culinaria e che vive in una stessa zona di una città. Questa comunità
si limita a dialogare e commerciare con le altre, senza integrarsi, rispettando
le leggi del paese ospitante.
Non ho fatto l'identikit di un ghetto islamico isolazionista e pericoloso. Ho
invece descritto la comunità italiana di Adelaide (ma avrebbe potuto
essere quella italiana di Montreal, o magari quella cinese di Rimini), che in
mezzo secolo non ha neanche fatto lo sforzo di imparare la lingua. Me lo confermavano
due ragazze che ho conosciuto lo scorso anno, infermiere nella città
australiana, che conoscevano tantissime parole della nostra lingua perché
costrette ad impararle per dialogare con la marea di italiani che da 50 anni
vivono là, che fanno gruppo senza parlare troppo inglese, ma che sono
rispettosi delle regole e sono australiani, ma non integrati nella "cultura"
australiana. Qualcuno ora dirà: è ovvio, noi italiani siamo i
più buoni del mondo e gli australiani sono dei bonaccioni, figuriamoci
se si trattava di musulmani! Sicuri?
Volete sapere qual è il vero paese multiculturale del mondo? La Malesia.
Se equivale l'equazione che era stata fatta propria da Oriana Fallaci, islam
= violenza distruttrice ed intollerante, com'è possibile che alcuni tra
i più grandi stati islamici siano anche storiche realtà multiculturali?
Bisognerebbe far un po' più di attenzione a queste società per
capire meglio la gestione della diversità, e forse anche l'islam.
La Malesia non è un paese islamico per caso. Ha una tradizione maomettana
secolare che risale al '500. E' il centro mondiale e più gettonato della
finanza islamica e l'università di Kuala Lumpur è la Harvard del
mondo arabo e musulmano in generale. La grande maggioranza delle ragazze adolescenti
gira col velo in testa eppure… Eppure in Malesia, solo il 55% della popolazione
è di origine malese, che vive in compagnia di Cinesi (25%), Indiani (10%),
indigeni locali (10%). Nel Borneo i malesi sono addirittura meno del 50%, e
una buona parte della popolazione è cristiana. Sono comunità tra
loro diversissime, da tutti i punti di vista, che si sposano raramente tra loro,
e che del melting pot non sanno che farsene da 4 secoli, pure tra tensioni e
difficoltà. Ma, sarà un caso, tra i paesi del sud est asiatico
è quello più sviluppato.
E che dire del Brunei, dove c'è il proibizionismo sugli alcolici, dove
il sistema giudiziario è basato sul Corano, ma dove gli abitanti sono
tra i più rilassati d'Asia: poco fuori della capitale un tassista mi
ha persino offerto un passaggio, un tassista! Ed anche nel piccolo Brunei un
terzo della popolazione non è né di origine malese, né
musulmana. Ma tutti vanno d'accordo con tutti. Se c'è un islam molto
aggressivo (eccome se c'è!), la colpa non credo sia dell'islam, ma questo
lo vedremo la prossima settimana.
Ancora. Un noto intellettuale indiano professore di economia internazionale
all'università californiana di Berkley, Vinod Aggarwald, figlio di un
diplomatico e marito di una imprenditrice indiana editrice di un quotidiano
della California, becnché inseritissimi nella società USA, non
sono integrati culturalmente e si sono sposati grazie alla selezione fatta dai
loro genitori in base alle caste di appartenenze, ed entrambi ritengono sia
il metodo migliore per un rapporto duraturo. E la loro non è assolutamente
un'eccezione.
Gli immigrati devono rispettare in modo ferreo le nostre leggi, non si discute.
Su questo non transigo di un millimetro, ma puntare all'integrazione culturale
è una triste utopia, tipica forse di noi occidentali poco abituati alla
vera coabitazione tra diversità. Ci sono quindi mille sfumature nei modelli
multiculturali che vanno considerate con attenzione prima di scagliare crociate
messianiche contro il semplice termine "multiculturalismo".
Se c'è tolleranza reciproca e rispetto delle regole una comunità
può anche restare non integrata socialmente e ciò può anche
essere un bene.
Pensate all'esercito di badanti dell'est che hanno invaso l'Italia. Loro si
stanno integrando anche più velocemente del necessario. Si accoppiano
molto volentieri, adottano ancora con più piacere la nostra cucina e
stanno entrando in tantissimi nuclei familiari. Vogliono l'integrazione pacifica,
totale e matrimoniale, possibilmente con comunione dei beni. Vi chiedo: credete
siano più pericolose loro, brave e intergrate, per il mantenimento della
nostra identità culturale e sociale o l'equivalente esercito di cinesi
che se ne sta per i fatti suoi?