Pubblicato il 30 agosto 2006 su La Voce di Romagna
in prima pagina
di Simone Mariotti
Un anno fa in questi giorni mi trovavo nel Borneo malese, nel
Sarawak per l'esattezza. Mi stavo addentrando nella giungla lungo il grande
fiume Rejang. L'ultima vera "città" che si incontra provenendo
dalla costa è Kapit, la capitale amministrativa di una vasta area quasi
completamente costituta da foreste e fiumi. Qualche migliaio di abitanti, raggiungibile
solo in barca, pochi chilometri di strade per collegare i villaggi più
vicini. Seppur piccolo ed essenziale, a Kapit, come quasi ovunque in Malesia,
c'è un fast food della catena Sugar Bun. E' il McDonald locale dove puoi
mangiare sia hamburger che piatti asiatici in versione fast. Ma in molti dei
suoi negozi c'è anche altro. Ed anche a Kapit nel menu si trovavano tre
piatti occidentali (i soli oltre all'hamburger), ben pubblicizzati: "Macaroni",
"Raviali", "Bolognesa".
Pur difettando nell'ortografia, nel mezzo della giungla del Borneo il cibo "italiano"
tirava, e non poco. Peccato (per fortuna, per me!) che di italiani in un mese
e mezzo non ne abbia incrociato nessuno. Il cibo italiano in oriente, dove è
sempre più di moda, lo gestiscono soprattutto gli altri.
Non è una novità. La più grande multinazionale della pizza
globale non è italiana, e non sono italiane neanche la seconda, la terza,
la quarta …
La pizza al taglio nel mondo si chiama "Pizza Hut", e nacque addirittura
nel 1958, con un capitale di appena 600 dollari, ed oggi è diffusa in
più di 100 nazioni, dall'Irlanda al Brasile, dall'Oman alla Cina, soprattutto.
Il caffé italiano sta dilagando in Asia. E se in Giappone è sbarcato
da lustri, quando il fenomeno Cina era ancora sonnolento, oggi anche per i giovani
cinesi il tè ha le ore contate. "Capucino" è la nuova
parola d'ordine, a Singapore come a Pechino. Ma chi vende e produce il caffé
italiano per gli asiatici? Sono soprattutto gli americani della Starbucks di
Seattle, che tra le nuove proposte offrono anche il "Frappuccino".
E non si tratta di plagio stile il famigerato "parmesan cheese". E'
caffé, fatto in stile italiano, con nomi italiani, servito all'italiana,
ma da non italiani. Eppure il made in Italy è richiesto.
A Hong Kong, dove c'è oggi quello che sarà di moda in Cina domani,
i direttori delle grandi catene di supermercati non fanno che ripetere ai giornali
italiani che il made in Italy gastronomico è decisamente preferito dai
cinesi rispetto a quello francese, anche se ancora sul vino siamo indietro.
Ma l'italian food sta facendo esplodere una piccola rivoluzione anche all'interno
del tradizionale ed antichissimo universo culinario orientale. Resta solo da
vedere se sarà vero italian food o se sarà italian food made in
USA o, peggio ancora, made in China.
Il prossimo prodotto da usare come maglio perforante della diffusione dell'italian
style gastronomico sarà il vino. Giappone a parte, rispetto alla popolarità
di caffè e pizza, il Chianti è ancora indietro nelle preferenze
orientali, ma è questione di poco.
Ma stiamo attenti a non sottovalutare la concorrenza emergente, e a non trincerarci
dietro ad un protezionismo commerciale che, per aiutare dei settori deboli,
rischia alla fine di scatenare guerre tariffarie che penalizzeranno anche i
nostri prodotti d'eccellenza. Nell'indice creato da Mediobanca per monitorare
le aziende vinicole quotate nelle borse mondiali ci sono due aziende cinesi,
ci sono i cileni, gli australiani ed anche i produttori indiani si stanno facendo
avanti, ma ancora nessun titolo italiano.
Oltretutto, il mondo del vino nostrano guarda con troppa puzza sotto il naso
i nuovi paesi produttori del terzo mondo, e ciò non è bene. In
nessun settore.
Con la stessa sufficienza si parla della bassa qualità e della inadeguata
tecnologia cinese. Solo che mentre da noi si assiste al "trionfo dei sapienti"
che continuano a paragonare la biotecnologia all'eugenetica, tra Bangalore e
Shanghai stanno nascendo i più stratosferici centri di ricerca globale,
che nel giro di una decina d'anni, se non prima, svuoteranno definitivamente
le nostre moribonde facoltà scientifiche. Negli anni sessanta e settanta
si ironizzava sulla qualità delle auto giapponesi. Oggi le obbligazioni
della Toyota hanno un rating più alto dei BTP Italiani.
Insomma, diamoci una svegliata, servirà molto di più a proteggerci
da indiani, cinesi e idraulici polacchi. Anche nel nostro ipercoccolato mondo
del vino.