Pubblicato il 12 ottobre 2005 su La Voce di Romagna
in prima pagina
di Simone Mariotti
I 40 anni a cavallo tra otto e novecento rappresentarono un
periodo storico unico, definito da Keynes "uno straordinario episodio del
progresso umano", che però si concluse nel 1914". Cito dalle
pagine del suo testo "Le conseguenze economiche delle pace" (del 1919):
"L'abitante di Londra poteva ordinare per telefono, sorseggiando a letto
il tè della mattina, qualsiasi prodotto del globo intero, in qualsiasi
quantità desiderasse, e confidare in una consegna ragionevolmente sollecita,
sull'uscio della propria casa; poteva con gli stessi mezzi e negli stessi tempi
investire in ogni angolo del mondo, e condividerne senza sforzi o disturbi gli
eventuali frutti; oppure poteva decidere di legare la sua fortuna a quella dei
titoli emessi da Stati o municipalità di ogni continente [...]. Poteva
avventurarsi all'estero, usando trasporti non cari e confortevoli, verso qualsiasi
paese e qualsiasi clima, senza passaporti o altre formalità. Poteva mandare
un incaricato alla banca per ritirare qualsiasi quantità di metalli preziosi
di cui avesse bisogno, e poteva poi andare all'estero, senza conoscenza di altre
religioni, altre lingue o altri costumi, portando nelle tasche oro coniato,
e sarebbe stato molto sorpreso ed annoiato alla minima interferenza. E infine
- ed è questa la cosa più importante - considerava questa situazione
come qualcosa di normale, certo e permanente, e qualsiasi deviazione da questo
stato di cose come un'aberrazione ed uno scandalo".
Qualche anno fa lo storico ed economista Fabrizio Galimberti commentò
le parole del grande studioso inglese sottolineando come, "alla fine del
novecento, dopo 50 anni di apertura multilaterale degli scambi, e dopo un decennio
di liberalizzazione dei movimenti di capitale, il mondo sta tornando ad assomigliare
a quello di cent'anni prima, descritto da Keynes. Ma in certi cruciali aspetti
ne siamo ancora lontani, come presto si accorgerebbe chiunque voglia girare
il mondo senza il passaporto e con un sacchetto di monete".
Stiamo quindi lentamente avvicinandoci di nuovo all'unico momento storico in
cui il mondo era veramente globale. Ma cosa possiamo imparare dagli errori del
passato, quelli che portarono alla distruzione di quel sistema?
Per capire la prima e più importante lezione (che Keynes, inascoltato,
aveva già spiegato al mondo nel '19), c'è voluta un'altra guerra
mondiale: coinvolgere il nemico di ieri in una organizzazione internazionale,
aiutandolo senza massacrarlo di richieste, produce più frutti per il
benessere futuro di un atteggiamento chiuso ed ostile.
Eppure, ancora oggi nel cuore di molti europei (ma non della maggioranza) prevale
una grande paura, che nasconde dietro di se una grande insicurezza, di fronte
alla notizia del futuro, eventuale, ingresso nella casa comune di un grande
paese, popolato da vecchi nemici: la Turchia.
Anche il prof. Morra, infastidito da questa possibilità, la settimana
scorsa ha fatto una interessante carrellata di tutte le disgrazie che potrebbero
capitare agli europei per colpa dei turchi. E a leggere le sue parole gli elementi
di preoccupazione non mancano, e sono stati anche ben argomentati. Ma solo in
parte. Non perché la fotografia della realtà sia sbagliata, quanto
perché le cause che hanno prodotto le difficoltà attuali della
Turchia e che hanno spinto i suoi abitanti all'emigrazione di massa verso, soprattutto,
l'area mitteleuropea, risiedono proprio nel fatto di essere ancora oggi un grande
e popolato paese che però non ha i mezzi per camminare bene da solo perché
troppo isolato.
E non bisogna dimenticare che l'ingresso della Turchia non sarà un processo
immediato, ma soggetto a tutta una serie di paletti da rispettare, che impiegherà
una decina d'anni prima di realizzarsi.
Ora, se vogliamo che un grosso paese, oltretutto islamico, potenzialmente pericoloso,
non rappresenti una spina nel fianco per il futuro, non credo che sbattergli
la porta in faccia senza neanche dargli la possibilità di provarci sia
un grande stimolo alla crescita.
Ed attenzione, il nocciolo del problema è tutto qui: un paese più
ricco e sviluppato, che può accedere ad una più vasta area commerciale
e che può sfruttare maggiori potenzialità, produce necessariamente
una minore emigrazione ed in ultima istanza un clima di maggior democrazia.
Fermarsi alla constatazione che un secolo fa ci si guerreggiava, non è
molto lungimirante. E che dire di inglesi e francesi allora, che si sono scannati
per secoli, odiandosi a vicenda per un migliaio di anni? Non dovrebbero cooperare
o scambiarsi lavoratori al loro interno solo per questo?
I grandi flussi migratori che arrivano dai paesi più poveri (e anche
la storia italiana ne è una testimonianza) sono tali nella fase in cui
questi paesi fanno fatica ad entrare nel sistema del commercio internazionale.
Se la Turchia avesse avuto la possibilità di iniziare il suo processo
di avvicinamento alla UE anni fa, probabilmente oggi sarebbe ad un livello di
arretratezza minore e con una molto maggiore capacità di trattenere i
suoi lavoratori, e al tempo stesso di contenere il tasso di fertilità.
Lo scopo di Ankara non è quello di islamizzare la Germania o l'Austria,
è quello di vedere aperte le frontiere per far uscire le merci e far
ritornare i propri cittadini. Dobbiamo lavorare affinché tutto il bacino
del mediterraneo divenga parte un'unica area di scambio, come lo è sempre
stato in tutta la storia dell'uomo, ultimi 100 anni esclusi.
Se poi temiamo l'arrivo dell'idraulico turco (come i francesi di quello polacco),
la cura per la paura non è la chiusura delle frontiere, è il ripensamento
del nostro sistema economico, iperprotetto, quindi malsano ed inefficiente,
pieno di rendite e corporazioni che andrebbero smantellate tutte, nessuna esclusa,
dai notai ai farmacisti, dai giornalisti ai tassisti. Un sistema che produce
troppi laureati in materie "auliche" come Scienze della Comunicazione,
ma pochi ingegneri e chimici.
Nessuno ha più voglia di lavorare "con le mani", ma si continua
comunque a gridare "mamma li turchi"!