Pubblicato il 28 settembre 2005 su La Voce di Romagna
in prima pagina
di Simone Mariotti
Mezzogiorno era passato da poco. Il sole, tornato a splendere
sopra di noi, aveva nuovamente permesso il decollo del piccolo Twin Otter della
Malaysian Airlines (minuscolo bimotore ad elica da 19 posti) che ci stava trasportando
sulle Kelabit Highlands. Era appena iniziata la manovra per planare lentamente
su Bario. Oltre a me sull'aereo c'erano altre 5 persone, due locali e 3 uomini
di Singapore, professionisti in pensione, da quelle parti per la quarta volta
e smaniosi di immergersi tra le montagne per una battuta di pesca fluviale.
Le tante risaie sfumate che si vedevano dall'oblò, e che sembravano volersi
tuffare nella foresta, diventavano velocemente sempre più definite, con
i loro particolari e i loro colori. Poche strade di collegamento, tutte fangose
(l'asfalto o i ciottoli non esistono qui); pochi gruppetti di case qua e là.
Descrivere a parole questo posto non è semplicissimo, specialmente se
si vuole trasmettere un po' del suo mistero leggendario, come lo può
avere solo il posto più remoto della Malesia e probabilmente di tutto
il sud est asiatico, tornato al mondo solo dopo la guerra, e dopo il "Konfrontasi"
con l'Indonesia nei primi anni sessanta, quando l'aggressione voluta da Sukarno
contro il Sarawak fu orgogliosamente respinta dai malesi (ma con l'aiuto più
che rilevante dei vecchi colonizzatori inglesi).
Per fare un paragone italiano, avete presente la piana di Castelluccio, col
suo fascino, i suoi campi isolati e protetti, i colli che abbracciano le più
buone lenticchie del mondo? Bario è un po' lo stesso, in versione "riso",
e quello coltivato qui è uno dei più pregiati del mondo, il migliore
in assoluto per i giapponesi. Con qualche distinguo.
Il Borneo non è così facilmente visitabile come la zona dei monti
Sibillini. Non ci sono strade, non esistono mezzi pubblici, e i pochi fuoristrada
(e quando dico pochi dico 5 o 6 in tutto!) che circolano da queste parti sono
stati portati a pezzi e poi rimontati. Un solo volo al giorno (quello da 19
posti) collega Miri, città costiera affacciata sul caldo Mare Cinese
Meridionale a pochi chilometri dal Brunei, a Bario che quindi non è proprio
un porto di mare. Il permesso che mi ha rilasciato l'ufficio di Miri per entrare
nelle Highlands è il n° 87 dall'inizio dell'anno, e siamo già
ai primi di settembre.
Non c'è luce elettrica pubblica, e i pochi generatori autonomi non sempre
ricevono il carburante necessario al loro funzionamento dall'unico Skyvan, tra
quelli ancora attivi in Malesia, che riesce ad atterrare sulla minuscola pista
di quassù.
Per il resto si va a piedi, o trainati dai tanti bufali che sono parte integrante
della vita del popolo Kelabit.
Ma c'è un grande orgoglio e consapevolezza di essere riusciti a mantenere
intatto qualcosa di speciale, e un sistema di irrigazione eccellente (e misterioso!)
che fa si che il riso delle Kelabit sia così unico.
Un vecchio contadino incontrato all'aeroporto il giorno della mia partenza,
mi chiese con curiosità cosa si coltivava in Italia, con quali tecniche,
se amavo quello che la terra mi dava. Ai suoi tempi, prima che alla fine degli
anni '40 venisse costruito l'aeroporto, le Kelabit Highlands erano un mondo
a se. Arrivare a Miri richiedeva circa 20 giorni di duro e pericoloso cammino
tra fiumi e foresta, e solo per i pochi mesi l'anno in cui le piogge lo permettevano.
La maggior parte degli abitanti, specialmente le donne, trascorrevano la loro
intera esistenza senza mai lasciare Bario. Tempi lontani, di cui qualche traccia
è rimasta ancora oggi, soprattutto attraverso le sembianze delle donne
ultra settantenni con i loro piedi tatuati da un inchiostro scuro e le inconfondibili
orecchie con i lobi forati e abnormemente allungati, simbolo di un'idea tramontata
di bellezza e femminilità, obbligatorio fino a qualche decennio fa.
Nei villaggi sparsi tra le highlands in un raggio di 30-40 Km, sino oltre il
confine con l'Indonesia, i ritmi sono ancora lenti e gli stessi di un tempo,
anche se nelle case dei leaders (quelle col generatore) fanno bella mostra di
se enormi parabole per ricevere, perlomeno, la tv.
A Pa Lungan, la culla del riso per eccellenza, dove sarei arrivato qualche giorno
dopo, con ore di cammino, i cacciatori avevano portato a casa un grosso cervo
che sarebbe stato venduto il giorno seguente a Bario per 7 ringgit al chilo
(circa 1,6€), trasportato a spalla ovviamente, con tre ore di marcia su
per la montagna. Non capita spesso una preda così. E allora si festeggia
dopo cena, seduti attorno al fuoco, bevendo litri di "caffé"
e the, in compagnia di un bottiglione di whiskey scozzese, con il fuoco che
ci illumina e ci scalda mentre piccoli tranci di carne abbrustoliscono, forse
un po' troppo, sulla brace.
La pioggia batte forte sul tetto, ed anche un ragno gigantesco che pareva non
aver paura di nulla si trincera sotto una tegola. Mentre il resto della carne
appesa ad un chiodo attende il suo destino.
Altri uomini del piccolo villaggio ci raggiungono. Si parla di commercio, della
foresta, della caccia che non è più concessa ai Kelabit come un
tempo, per proteggere gli animali: "ma loro vanno avanti con quel fottuto
disboscamento, e non è peggio? La nostra cultura sparisce per avere un
cervo in più, ma la foresta muore. Se uccido un Hornbill ("bucero",
un maestoso uccello dal grande becco, simile a un tucano, simbolo del Sarawak)
mi fanno una multa colossale, ma loro indisturbati distruggono il suo habitat".
Saggezza semplice ed umana; poi silenzio, notte e luce.
Non ho voglia di tornare subito alla sbobba nauseabonda sul relativismo, alle
pugnette dei nostri politici e a quelle dei banchieri. Preferisco, ancora per
oggi, le tante sanguisughe di cui porto ancora i segni addosso, quelle vere,
quelle che ti tolgono il sangue solo per sopravvivere un po' anche loro; e che
vita.