Pubblicato il 16 maggio 2014 su La Voce di Romagna
di Simone Mariotti
Qualche giorno fa Roberto Perotti, economista della Bocconi, intervistato sui problemi dell’Expo milanese ha detto una cosa di una semplicità rivoluzionaria: se Milano lasciasse perdere l’Expo e dedicasse solo una percentuale minima dei soldi che si risparmierebbero per pulire la città da tutti i graffiti che la deturpano, trasformandola nella prima città al mondo ad aver fatto una cosa simile, otterrebbe una eco globale e ne palerebbero tutti i media del mondo, al contrario di quel che sta accadendo con l’Expo.
Avevo avuto uno scambio di mail con il professore qualche anno fa a proposito dei nostri due palacongressi a distanza ravvicinata (Rimini-Riccione) e lui mi fece notare che le città americane si sono riempite di palacongressi, quasi tutti poi sottoutilizzati o abbandonati. Nulla di che meravigliarsi dunque. La cosa ironica, se non drammatica, è che si sta precorrendo la stessa strada anche con le piscine, e nello stesso luogo del delitto.
Sono gli impianti sportivi più costosi in assoluto e Report un paio di settimane fa ha fatto un quadro impietoso della gestione di queste strutture, spessissimo in perdita, spesso costruite con criteri lontani dalla decenza, spesso ubicate in spregio dei criteri di sana pianificazione territoriale.
Rimini, che deve sempre “eccellere” (e dopotutto il mio amico Giuliano Bonizzato ha intitolato uno dei suoi imperdibili libri Rimini come l’America), di piscine pare ne avrà due, ma a 300 metri l’una dall’altra. E una di queste, un domani, forse, sarà pure di dimensioni olimpiche. Roba che neanche a New York c’è ne sono così tante, se pensiamo a quelle di Riccione e di San Marino.
Due mesi fa scrissi un articolo ironico sulla bulimia di piscine ricordando questo aspetto. Ermanno Pasini, mi chiamò, per un replica, e le sue motivazioni, basate se non altro su un piano industriale, restano probabilmente le più convincenti al momento nella complessa vicenda della variante Palas/Piscina/Garden/Conad/Motore immobiliare/Giochi di potere tra partiti e associazioni sportive/varie ed eventuali come al solito.
A me restano molti dubbi sulla sostenibilità di due piscine olimpiche così vicine e in concorrenza, e se in tutta Manhattan c’è solo una vasca olimpica, mi sbaglierò, ma secondo me un motivo c’è. Tuttavia la sua resta comunque una difesa motivata, legata anche al contenimento dei costi e a una logistica improntata più al buon senso. E dato che la gestione delle piscine, sia da parte del pubblico che del privato nei decenni precedenti non ha proprio brillato, e che Rimini non è un paesello di tre anime, avere due impianti uguali, la cui gestione economica è estremamente impegnativa, attaccati l’un l’altro e in concorrenza, se non è da fessi, è da somari. Ma il punto politico è un altro.
Leggo le opinioni di Cagnoni, di Brasini, delle associazioni, o la stessa difesa di Pasini per la sua olimpica... Tutti a difendere a spada tratta l’idea di un’opera, la sua costruzione, la bellezza della struttura, ecc.. Poi però, a opera compiuta arrivano i tempi della gestione, e si fanno i conti veri con l’utenza (che ex ante viene sempre sovrastimata, sempre) e i costi (sempre sottostimati).
Il resto che vedo e che sento ha poco a che vedere con il domani, e molto con le beghe dell’oggi, per mettere un po’ di pezze ad altri errori di valutazione fatti con il Palas, ma non solo.
Ma la logica è sempre, sempre la stessa, sia che si parli dell’Expo, della Tav, di piscine o di altre grandi opere. E cioè quella di guardare alla loro costruzione, e al giro di affari che comportano, e non al loro utilizzo, e quindi neanche alla loro ubicazione.
Siamo, insomma, ancora alle scelte dettate dal desiderio grandezza, o di inseguire gli altri come ai tempi di quella bruttura assoluta che è grattacielo di Rimini (non me ne voglia il mio direttore dato la sede del giornale è proprio lì). Una bruttezza cosmica nata da scelte miopi: “c’è a Milano Marittma e a Cesenatico, facciamolo anche a Rimini”, si disse. E anche allora un impulso non secondario fu dato non da una valutazione sull’utilità complessiva dell’opera, ma per gli aspetti legati alla realizzazione della stessa.
Non c’era un piano regolatore (siamo a fine anni ‘50), e fu istituita una commissione di valutazione che rigettò l’ipotesi del grattacielo per svariate ragioni: troppo vicino alla ferrovia, urbanisticamente sbagliato perché sproporzionato e non in armonia col resto degli edifici del quartiere, con un negativo impatto sul traffico e rischi di degrado della zona. Tutti problemi che però vennero ritenuti secondari rispetto a una considerazione predominante: l’impulso che la costruzione del grattacielo avrebbe dato a livello occupazionale.
Riusciremo mai a liberarci da questa specie di tirannia del voler fare a tutti i costi grandi opere, spesso male, trascurando cose molto più semplici, efficaci ed economiche?