L'ONU ridotta ad inutile fiera
Pubblicato il 13 maggio 2004 su La Voce di Romagna in prima pagina

di Simone Mariotti

"Un cavallo, un cavallo! Il mio regno per un cavallo!". Quando Shakespeare mise in bocca al suo Riccardo III (atto V, scena IV) questo grido rabbioso, il Re era piuttosto malandato: appiedato sul campo di battaglia, sul punto di essere infilzato. Conoscendo il tipo, sono sicuro che comunque non avrebbe mantenuto la parola! Tuttavia, la tentazione di svendere la propria integrità nazionale spinti dalle necessità non si è spenta col passare dei secoli.
Da molti anni, almeno da quando è finita la dura contrapposizione Est-Ovest, che grazie al generoso uso del diritto di veto aveva prodotto la paralisi all'interno del consiglio di sicurezza delle nazioni unite, l'ONU ha cercato di ritagliarsi uno spazio un po' più significativo di quello che aveva caratterizzato i primi 40 anni della sua storia.
Sempre più spesso le Nazioni Unite sono state tirate in ballo dai politici di mezzo mondo, che hanno mostrato verso l'Onu la stessa estatica passione con la quale gli indù si inchinano davanti al divino Shiva.
Capi di Stato e ministri si sono poi sempre compiaciuti di ignorare sia la pochezza dei risultati, che la tremenda burocrazia regnante all'interno del palazzo di vetro, per tacere del pesante gioco di interessi che solitamente muove le decisioni della sua assemblea. Tuttavia il fascino di una organizzazione globale il cui scopo è quello di mantenere la pace mondiale (sigh!) e di favorire la cooperazione tra i popoli resta immutato.
Si deve però prendere atto di un problema non da poco: le colossali differenze tra i paesi membri rendono il palazzo di vetro più una fiera che un'assemblea indipendente.
Dai Carabi ci arriva un segno di quello che intendo. La Cina ha recentemente "comperato" dall'isola di Dominica, Stato indipendente situato tra le colonie francesi di Guadalupa e Martinica, il suo voto contro il riconoscimento politico di Taiwan, nazione che fu estromessa dalle nazioni unite proprio per far spazio alla Cina Popolare nel 1971. Prezzo: 122 milioni di dollari, che per i 70.000 abitanti di Dominica non sono bruscolini. Il bello è che la stessa Taiwan ne aveva acquisito l'appoggio nei venti anni precedenti con contributi di varia natura. Ma oggi le casse del minuscolo stato caraibico, in difficoltà sotto diversi fronti, hanno costretto il governo ad accettare l'offerta cinese. Lo stesso avevano fatto altri piccoli stati come Nauru (9.900 abitanti), la Liberia, la Macedonia. Ma tanti sono ancora sulla piazza. Ad esempio diverse altre piccole repubbliche caraibiche, i microscopici atolli indipendenti del pacifico, come Tuvalu, gli Stati federati di Micronesia, le Palau, Kiribati, e altri che messi tutti assieme non fanno la popolazione della provincia di Rimini, non certo numerosa. Poi ci sono tutti i regimi africani, più o meno tribali, e le varie dittature che hanno fatto si che alla guida della Commissione Diritti Umani dell'ONU ci finisse pure quel sant'uomo del colonnello Gheddafi, mentre all'interno della stessa Commissione hanno diritto di parola signori come il Generale Gnassimbe Eyadema del Togo e Omar Bongo del Gabon, entrambi in carica "solo" dal 1967, per non parlare della presenza in commissione dello spietatissimo Sudan.
Insomma tra tamburi battenti, palme tropicali, danze polinesiane e qualche sceicco "democratico", che ne è delle grandi scelte che dovrebbero governare il mondo?
Gli abitanti di Dominica avranno un ospedale nuovo e i bambini potranno frequentare una scuola senza il pericolo che gli cadano dei mattoni sulla testa (e poveretti ne hanno sacrosanto diritto, come tutti), ma forse Taiwan resterà esclusa da una certa politica internazionale; nel frattempo Giappone e Norvegia, grazie ad altri "piccoli voti", si fanno strada nel loro tentativo di riaprire la caccia alle balene in via di estinzione.
Eppure un qualche forma di organizzazione serve. Ma servirà solo se gli stati membri sono innanzitutto democratici, e se hanno un peso per far valere la loro democrazia. Inutile fare i duri e puri dell'uguaglianza a tutti costi e a tutti i livelli. Altrimenti sarà la paralisi, o il proseguimento della solita uni/bi/tri-lateralità, la stessa che rischia di colpire la nuova Europa, non appena una legge troppo rigida finirà per penalizzare una stato di 50 milioni di persone a vantaggio di uno di uno con 300 mila abitanti. Però il diritto di parola, e di ascolto spetta a tutti. Che fare?
Una soluzione per le Nazioni Unite, si potrebbe costruire sul modello bicamerale americano, che assegna pari dignità a tutti gli Stati nel Senato (con due rappresentanti ciascuno indipendentemente dagli abitanti), mentre al congresso gli eletti per Stato sono in numero proporzionale al numero di abitanti.
Se non si troverà qualche via del genere, appellarsi alle risoluzioni delle Nazioni Unite come frutto della democrazia mondiale sarà pura demagogia di comodo. E se non si inserirà tra i parametri appartenenza anche quello della democrazia politica e della libertà economica, non solo saremo condannati a vedere un colonnello, dittatore in carica da 35 anni, dispensare saggezza umanitaria, ma anche ad assistere inermi a conferenze ONU in cui Israele viene definito Stato razzista e terrorista da uno stuolo di impresentabili dittature afro-arabe. Se il nuovo organismo riformato conterrà inizialmente solo poche decine di Stati poco male. Magari si discuterà di più e con più efficacia, e non si lascerà il campo libero agli americani di iniziare una guerra con il voto interessato del "Dittatore dello Stato libero di Bananas", o di fermarli con lo stesso misero sistema.








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