Pubblicato il 5 dicembre 2012 su La Voce di Romagna
di Simone Mariotti
La scorsa estate, nel mezzo della turbolenza finanziaria che aveva nuovamente colpito l’Italia, e con lo spread che era tornato a quota 500, in un bell’articolo apparso sul Sole 24 Ore lo storico dell’economia Gianni Toniolo aveva messo in parallelo due delle più grandi crisi europee dell’ultimo secolo, quella che aveva portato alle guerre mondiali e la grande crisi economica attuale. Toniolo faceva notare un aspetto chiave che caratterizzava le due situazioni in modo opposto.
Alla fine del secondo conflitto chi aveva fallito miseramente nel tentativo, rivelatosi disastroso, di dare sicurezza e crescita alle popolazioni europee era stata la politica. Terminata l’ultima guerra, i padri dell’Europa, scriveva Toniolo, “compresero che la cessione di sovranità era un modo per ricreare nei popoli la fiducia nella politica nazionale rendendo impossibili nuove guerre e creando un largo mercato motore di benessere dopo l’impoverimento prodotto dalle autarchie”.
La forza trainante necessaria a portare avanti questo progetto di integrazione fu quindi quella economica attraverso la creazione del grande mercato europeo che oggi è arrivato coprire quasi tutti i paesi del continente. La conclusione che trae Toniolo non è in realtà una novità: oggi che, al contrario di allora, la crisi è di matrice economica è la politica che deve fare la sua parte.
Gli Stati Uniti d’Europa sono un vecchio pallino di tanti federalisti europei come me, che vorrebbero una difesa europea, regole europee comuni sui diritti, sulla sanità, sui trasporti, sulle norme sul lavoro, sulla giustizia. E in tutti questi campi il nostro paese avrebbe di che giovarsi semplicemente adottando le norme altrui, la giustizia, la sanità e la scuola/università su tutto. Non per incapacità degli italiani di creare o di pensare a qualcosa di buono e di nuovo, ma per incapacità di sostituire il vecchio sistema e le sue ramificazioni che stanno marcendo. E questo accade sia guardando a destra che a sinistra.
Da paese all’avanguardia scientifica mondiale in tema di fecondazione assistita (un dei pochi campi in cui eccellevamo), siamo diventati un paese poco più che medievale, che si sta risollevando a colpi di sentenze che stanno lentamente svuotando la famigerata Legge40, riportandoci in Europa. Sul lavoro non si riesce parlare in modo sereno, e chi vorrebbe abolire l’articolo 18, credendo in buona fede sia un modo per ridare fiato all’occupazione, dalla sinistra è visto come un fascista. La giustizia civile è diventata un mostro informe, ma chi avrà il coraggio di dare una svolta? Le carceri scoppiano, i suicidi (anche dei membri della polizia penitenziaria) aumentano, e da anni siamo accusati di “tortura” dall’Europa, ma chi propone misure concrete, radicali a parte? Chi ha il coraggio di dire che un’amnistia è necessaria per dichiarare il fallimento della giustizia e poter ricominciare invece di mantenere l’inferno a tempo indeterminato, mentre l’oscena amnistia “di classe”. ottenuta con la prescrizione (per chi si paga buoni avvocati), continua indisturbata? Perché, tranne pochi sparuti liberali, nessuno chiede pubblicamente che le fondazioni bancarie siano espropriate delle loro quote negli istituti di credito per sottrarre alla mano politica una deleteria influenza nelle gestioni bancarie? Eppure nonostante scandali su scandali, la classe politica attuale, di destra e di sinistra, su questo punto non ci vuol sentire. Come sul finanziamento pubblico ai partiti, e ancora oggi i vecchi da Bersani a Casini, da Vendola a Fini ripetono il ritornello stantio che la politica senza soldi pubblici sarebbe in mano ai ricchi. La stessa motivazione che il vecchio leader repubblicano Ugo La Malfa usava negli anni settanta per giustificare la necessità dei denari di stato ai partiti. Un sistema che ha poi prodotto prima Tangentopoli e la sua Grande abbuffata e che poi ha portato al potere il più ricco d’Italia. Ma Bersani e gli altri ragionano con logiche da vecchi apparati e non avranno mai il coraggio di cambiare.
Ed è avvilente sentire Vendola che si affretta subito a dire che D’Alema sarebbe un ottimo ministro degli esteri e quest’ultimo invitare il leader di SEL al governo. Forse la cosa buona di tutto ciò è che, parlandone ora, i dinosauri del vecchio sistema si brucino subito. E un Bersani ministro all’interno di un governo Renzi sarebbe stato molto più libero di attuare le buone idee che ha (lasciando al rottamatore la responsabilità dei colpi d’accetta al sistema), rispetto alla libertà che avrà nella gestione di un partito represso e arroccato attorno a vecchie idee, che riuscirà ha vincere, forse, solo grazie al disfacimento dell’altro schieramento.
Domenica la sinistra ha perso un’occasione per diventare un po’ più europea. Certamente molti hanno votato con il cuore, ma se si guardano con realismo i problemi di oggi, quegli stessi elettori romantici e impauriti si accorgeranno presto che sarebbe stato meglio inseguire qualche sogno nostalgico in meno, che perderne a breve la maggior parte perché travolti dalla dura realtà dei fatti.