La Voce di Romagna, 25 aprile 2012
di Simone Mariotti
Su un quotidiano ho letto le seguenti dichiarazioni all’interno di un’intervista:
Al comizio ho parlato tre minuti delle elezioni e un quarto d’ora delle pensioni. E’ in gioco la vita dei lavoratori, il modello sociale del paese.
Ci dicono che siamo fuori dal mondo, che in Europa non funziona così
Per primo contro le pensioni si è scatenato Berlusconi. Ora il governo vuol fare la stessa cosa, solo temperandola. Vuole ridimensionare la previdenza sociale pubblica per aprire la strada a quella privata. Purtroppo una tendenza simile è anche nella proposta del sindacato: non ne sposa le ultime conseguenze, ma ne accetta la logica.
Quali sono i punti irrinunciabili per mantenere un modello previdenziale pubblico e solidale?
Primo, il rendimento; e cioè il rapporto tra pensioni e salari esistenti. Quello che ha consentito di andare in pensione con l’80% dell’ultima retribuzione. Secondo, il grande patto solidaristico tra generazioni per cui chi lavora paga la pensione di chi è pensionato. Due elementi aggrediti dal governo e compromessi dalla proposta del sindacato. Il terzo punto, che dovrebbe essere in centro della riforma, sono le pensioni di anzianità. E’ su questo che in autunno sono scesi in piazza milioni di persone. Anche qui il governo tenta un drastico ridimensionamento e anche qui il sindacato accetta un compromesso.
Attacco alla riforma previdenziale, accuse ai sindacati di essere troppo morbidi, il sogno di uno stato sociale estremo. Sabato mattina in piazza a Rimini c’era uno stand organizzato da alcuni movimenti di estrema sinistra (Fare Comune, Fabbrica d Niki, Tilt), e da quel che po’ ho ascoltato se fossi intervenuto leggendo queste frasi non credo proprio avrei avuto dei fischi. Quelle che si ascoltavano sabato mattina erano parole sentite con cuore sincero, almeno quelle dei più giovani o dei neo prestati alla politica. Sincere e sentire sì, ma anche molto vane, vaghe, nel senso di sognanti, ma che di quelle che si perdono nel vuoto, nel disordine e nella sofferenza. Non voglio mancare loro di rispetto, ma tra il disagio da loro rappresentato e le frasi che ho riportato all’inizio ci sono di mezzo 17 anni. Si tratta di un’intervista fatta a Fausto Bertinotti e pubblicata l’8 aprile 1995 su Liberazione, in un numero del giornale che mi sono tenuto da allora per verificare un giorno concetti che mi sembravano pessimi, curioso di vedere come sarebbe andata a finire.
Quella che Bertinotti osteggiava, con argomentazioni quasi identiche alle rimostranze di oggi, era la riforma Dini, certamente criticabile, ma perché poco drastica (e infatti siamo arrivati alla scure della Fornero, proprio per colpa del lassismo dei 17 anni passati), per sostenere il carrozzone dell’INPS così com’era allora, già bello pieno di falle.
E oggi come allora le comprensibili ingenuità di alcuni dei ragazzi delle piazze antagoniste (sinistra comunista, grillini, lega, destra sociale), cui anche i sindacati, paiono dei reazionari, o le sciocchezze ventilate da qualsiasi candidato alla presidenza francese, finiscono paradossalmente per facilitare l’arrivo dei loro spettri più neri.
Una riforma più coraggiosa di Dini, come l’estendere il contributivo a tutti sin da subito, in una popolazione italiana allora più giovane di quella di oggi e in un sistema economico che ancora poteva crescere, avrebbe certamente avuto effetti duri per qualcuno, ma non così pesanti come le forzature di oggi, che rischiano di strangolare il paese da una parte, o di portarlo rapidamente al default se si molla la presa.
I sogni fioccano, e anche nell’ultimo Report, in cui si mostrano i successi delle “imprese sociali” nell’Argentina del dopo default, si è parlato per mezzora delle 15mila famiglie che vivono grazie a questi tentativi (quindi quante persone? 60mila? Gli argentini però sono 40 milioni…), ma tra le righe, forse per non spezzare i sogni, si ricordava che dopo il crack del paese le fabbriche chiudevano eccome, una dopo l’altra, e son rimaste chiuse per anni. E solo dopo aver fatto pagare il conto ai cittadini di altri paesi (italiani soprattutto) la situazione è iniziata a migliorare, lentamente. Altro che “esodati”!
C’è uno sport che va di moda di recente, quello di dar contro alla Germania, a prescindere, come se fosse lei la causa dei nostri mali. Che ha un po’ la stessa logica del condannare una ragazza violentata perché si è vestita in modo provocante dicendo che se l’è cercata. Non difendo le scelte tedesche, ma se ci stiamo facendo dirigere da loro è perché siamo cotti e bolliti, e incapaci di cambiare davvero. E nulla di quello che promette Holland, solo per citare l’ultimo sulla scena, verrà portato avanti, ed è più questo che spaventa i mercati, che non il contrario. Perché è una conferma di due cose: debolezza generale europea e incapacità di soluzioni nuove che non guardino al solito protezionismo miope o al nazionalismo, che faranno solo perdere altro tempo e valanghe di denaro in discussioni infinite sul sesso economico degli angeli.
Si dice che siamo schiavi dello spread, ma per cambiare le cose bisogna avere il coraggio di scelte nuove, che spiazzino lo status quo in cui siamo impantanati. E se non le si vuole fare bisogna prima riuscire a rispondere alla solita domanda: chi paga?