Pubblicato il 14 marzo 2012 su La Voce di Romagna
di Simone Mariotti
Anni fa lessi un vecchio libro di narrativa di viaggio scritto nel 1934 da un giornalista francese nelle Filippine. A un certo punto c’è un dialogo con un capitano di marina che da lungo tempo solcava quelle acque. Discutendo delle frizioni tra Giappone e le altre potenze, in un lungo discorso che spiegava la mentalità sia dei popoli locali che dei Giapponesi, l’autore si sente dire dal capitano che “non è difficile essere profeti in materia: l’apertura delle ostilità avverrà senza alcuna dichiarazione ufficiale di guerra com’è consuetudine dei giapponesi”.
Quello del racconto di viaggio è uno dei primi generi letterari della storia, si pensi alle molte cronache dell’antichità, al Milione di Marco Polo ecc., che mantiene un certo pubblico anche oggi, ma che resta comunque troppo di nicchia, rispetto alle potenzialità di arricchimento culturale che ha se confrontata ai semplici reportage giornalistici. E non parlo di opere di storici e antropologi, ma di racconti veri frutto di osservatori normali, e di scrittori bravi abbastanza da riuscire trasmettere qualcosa di una cultura lontana. Che succede per esempio in India, in Kerala? La questione dei due militari italiani è complessa non tanto perché sono di difficile interpretazione gli eventi, ma perché siamo in India.
Forse è tutta un’esagerazione elettorale, passata la quale, anche nella più grande democrazia del mondo le cose prenderanno una piega meno ideologica, e si sbroglieranno in men che non si dica, o forse no. Ma qualunque sia lo sviluppo degli eventi, questi non credo possano essere capiti e decifrati se non si fa lo sforzo di capire che l’India innanzitutto non è un paese come gli altri, ma è anomalo anche all’interno del vasto, ma da molti punti di vista omogeneo, continente asiatico. Ed è un paese in cui anche gli strumenti della diplomazia andrebbero forse affidati a chi quel paese lo conosce a fondo.
Resistente alle culture esterne colonizzatrici come pochi altri luoghi della terra, trascorrere anche solo poche settimane in India significa essere immersi in un mondo che sta scrivendo il futuro tecnologico del globo con una mano, e frustando un intoccabile che non lava il pavimento con le mani con l’altra, senza che in troppi vi trovino nulla da dire.
Il Kerala che trattiene i due marò è una delle aree più socialmente sviluppate dell’India, con tassi di alfabetizzazione a livello europeo e governato da sempre da comunisti marxisti (e socialisti) eletti democraticamente, tanto che mentre giravo da quelle parti un paio d’anni fa mi imbattevo saltuariamente in piccole lapidi rosse simili a tempietti votivi ai bordi delle strade o dei canali, con sopra riprodotto il simbolo della falce e martello, mentre attorno pullulavano le cliniche private, le stazioni balneari più occidentalizzate dell’India, e dove la grande tradizione dell’equilibrio corporale dell’Ayurveda convive con un sistema di caste più forte che mai. E anche nella vicenda dei nostri due ragazzi, credo sia necessario comprendere che l’India “è come un elastico, da una parte all’altra sino al limite, sempre con il rischio che si rompa”.
Ho messo quest’ultima frase tra virgolette perché l’ho rubata a Paola Pedrini, una giornalista freelance emiliana di Fiorenzuola d’Arda che l’India la conosce bene, e che pochi mesi fa ha pubblicato un bel libretto di pensieri, La mia India - pensieri in viaggio (Polaris, 2011), che rappresenta un piacevole modo per avvicinarsi a questo paese.
Ne parlo oggi non per tentare di spiegare quel che non si può, ma perché credo che sia proprio in situazioni come quella dei nostri connazionali sotto accusa e del giusto clamore mediatico che solleva, che diventa utile l’esperienza di chi, venendo dalla nostra realtà, ha vissuto quei paesi in prima persona e tenta di raccontare un’esperienza in modo leggero, senza scopi particolare se non quello di aver assorbito dentro di se quel mondo e di volerlo rilasciare a pezzettini.
Mi chiedevo se fosse ancora possibile dire qualcosa di interessante su un paese su cui è stato scritto di tutto da sempre, ma Paola è una ragazza che si è buttata alle spalle la complessità indiana e saggiamente non ha provato a descriverla, ma si è semplicemente incamminata lungo quell’elastico teso e vibrante di contraddizioni, prendendo appunti, scrivendo in presa diretta, come una reporter in pausa pranzo che si diverte a raccontare pensieri e aneddoti. Lei in realtà non si lascia andare troppo, vuole aprire, ma non spalancare, e se una critica si può fare al libro è quella di aver lasciato il lettore con la voglia di indagare di più, di dire “E poi?”.
Ma è questo in fondo lo stimolo importante che deve arrivare dalla buona letteratura di viaggio. In questo caso Paola Pedrini racconta la sua India, senza sottrarci la nostra. E sarà il lettore a dover proseguire grazie, domani, alla capacità acquisita oggi di non farsi scappare certi particolari che prima si perdevano nel carosello di informazioni e luoghi comuni che banalizzano ogni storia esotica di grave attualità strombazzata dai media italiani.