Pubblicato il 17 agosto 2005 su La Voce di Romagna
in prima pagina
di Simone Mariotti
Molti ricordano Pancho Villa come l'eroe che scacciò
i grandi "proprietari" stranieri fuori dal Messico e che combatte
per il popolo. Fu un generale implacabile che aiutò molti bisognosi e
salvò molti orfani. Si dice che le sue truppe fumassero marijuana, un
termine che loro usavano per definire il fiore della pianta conosciuta negli
Stati Uniti come hemp, e che in Italia si chiamava canapa.
Il nome messicano derivava probabilmente da Juana, una soldatessa dell'esercito
di Villa. La canzone popolare "La Cucaracha" racconta di uno scarafaggio
che non riesce a camminare perché non ha marijuana da fumare (La cucaracha,
la cucaracha, / Ya no puede caminar; / Porque no tiene, porque le falta / Marijuana
que fumar). Ovviamente, da noi, così come in molte altre parti del mondo,
le traduzioni dall'originale o le versioni successive della canzone non sono
state, come dire, rigorose.
Durante la guerra ispano-americana, le truppe di Villa sequestrarono 800.000
acri di terreno da cui si estraeva del legname di prima qualità di proprietà
del magnate americano della carta William Randolph Hearst. Hearst allora iniziò
una battaglia contro la marijuana, sostenendo che i fumatori dalla pelle scura
che ne facevano uso si tramutavano in assassini. La campagna fu utile, sia per
oscurare le potenzialità della cannabis come sostituto del legname per
la produzione di carta, che per una campagna razzista e denigratoria contro
i lavoratori messicani negli USA. Gli americani non sapevano però che
la spaventosa marijuana non era altro che il loro vecchio amico hemp. L'hemp
è una delle risorse naturali più utili e versatili del pianeta,
una fonte per carta, fibra, carburante, cibo, medicine e molto altro ancora,
ma che continua ad essere denigrata solo per ignoranza o paura.
Così come Hearst si era mosso per motivi legati alla redditività
del suo impero industriale, anche oggi c'è chi riesce a sfruttare economicamente
in modo egregio quella situazione paradisiaca (per loro) chiamata "proibizionismo".
La Colombia è un caso esemplare in cui addirittura due eserciti paramilitari
si nutrono grazie al ricco commercio di coca: il FARC (di emanazione popolare,
di "sinistra", e che controlla il sud del paese) e l'AUC, più
di "destra", nato venti anni fa quando i narcotrafficanti iniziarono
a comperare vasti territori al nord, territori in cui erano presenti molti "vigilantes"
che lavoravano come indipendenti per proteggere i piccoli proprietari precedenti,
e che furono riorganizzati dai narcos in vera potenza paramilitare. Oggi L'AUC
recluta giovani e disoccupati pagando buoni stipendi frutto del solo traffico
di cocaina, detta le politiche nazionali alla corrotta classe dirigente colombiana,
e continua ad inviare indisturbato valanghe di coca in Europa ed America. Il
tutto grazie al solo proibizionismo occidentale.
Più a nord il Messico rappresenta un classico esempio della futilità
delle politiche repressive antidroga. Anni fa la rotta principale per il Nord
America era quella caraibica, via mare. Lo spiegamento di forze navali Usa nelle
acque del Golfo del Messico e al largo della Florida, hanno reso pericolosa
questa strada per i narcos. Risultato: oggi tutto il confine terrestre messicano
con gli Stati Uniti è rigorosamente suddiviso in 4 zone sotto il controllo
di altrettanti nuovi potenti "cartelli", che fanno il bello e il cattivo
tempo. E visto che il proibizionismo Usa paga sempre di più i gruppi
malavitosi sono sempre più organizzati ed equipaggiati.
Un po' come accadde alla Colombia, che vide un forte incremento nella produzione
di coca nel momento in cui si fecero sentire i risultati dei progetti di sradicamento
della pianta in Perù e in Bolivia negli anni ottanta. Dopo tanti anni
ci crescita oggi le quote Colombiane si mantengono da qualche tempo stazionarie,
se non in leggero calo. Ecco che allora ad approfittarne sono tornate, guardo
caso, nuovamente Perù e Bolivia, che negli ultimi 2 anni hanno visto
crescere la loro quota nel mercato globale.
Passando sull'altra sponda dell'oceano, troviamo il Marocco, da anni star della
marijuana. Con i proventi del proibizionismo di sono finanziari, tra i tanti,
anche gli attentatori di Madrid, mentre la mafia albanese ringrazia i nostri
governi proibizionisti per la miniera d'oro che gli è stata consegnata
su un piatto d'argento negli ultimi 10 anni.
Chiudiamo la carrellata con il vero paradiso: l'Afghanistan. Non contento per
aver finanziato un programma che versava soldi ai talebani, che a loro volta
foraggiavano e proteggevano galantuomini come Bin Laden, l'Onu cocciutamente
insiste nelle sue strepitose "politiche di contenimento" e "sradicamento".
Ed i risultati si vedono!
A 3 anni dalla guerra la produzione afgana è addirittura esplosa ed il
2004 è stato un anno mitico per la quantità di oppio prodotta,
e poteva essere molto meglio se le condizioni atmosferiche lo avessero permesso.
Si potrebbe continuare con il Pakistan o la Cambogia, in cui anni fa il rappresentante
del governo per la lotta alla droga fu pescato con in casa una mezza raffineria
di pasticche. Perse quell'incarico, ma un altro ministero era pronto per lui.
Ed anche nel caso cambogiano si tratta di rotazione. La lotta dura sul "triangolo
d'oro" (Tailandia, Laos, Birmania) ha rinvigorito le potenzialità
di Phnom Phen.
Il più grande "successo recente" millantato dall'Onu è
la Birmania, pardon il Myanmar, una delle più orrende dittature del mondo,
la cui giunta militare al potere che agisce indisturbata massacrando il popolo.
Dal palazzo di vetro si dice che i risultati dello sradicamento birmano siano
concreti. Peccato che i dati provengano dai generali, mentre solo un paio di
settimane fa l'Economist accreditava il Myanmar del titolo di secondo produttore
mondiale di eroina. Complimenti, anche per il pietoso silenzio globale su questo
schifoso regime schiavistico.
Il succo di tutto questo ben di Dio, trasformato in numeri vuol dire 322 miliardi
di dollari, lo 0,9% del pil globale (fonte Onu), un'industria superiore a quella
dell'88% degli stati appartenenti all'Onu. E tutto ovviamente (esentasse) in
tasca a terroristi, mafiosi, dittatori, criminali di vario genere. Non bisogna
essere dei maghi per capire come tutto ciò sia una pura follia. Tanto
è vero che da sempre la maggior parte degli economisti sostiene l'assurdità
dei regimi proibizionisti.
L'ultima forte presa di posizione è arrivata pochi mesi fa dalla prestigiosa
Harvard University di Boston. Capitanati dal professor Jeffrey Miron, 500 economisti
trascinati anche dall'ultraconservatore premio Nobel Milton Friedman, hanno
chiesto all'amministrazione Bush di sostituire il proibizionismo sulla marijuana
con un regolamento identico a quello in vigore per l'alcool, che produrrebbe
tra l'altro, oltre al risparmio delle notevoli risorse impegnate nella perdente
drug war, nuovi introiti fiscali nell'ordine di 10-14 miliardi di dollari all'anno.
Un anno fa, il 30 agosto 2004, furono un gruppo di repubblicani a scendere in
campo invocando la legalizzazione della marijuana con lo slogan "Fa la
cosa giusta" (in inglese lo slogan gioca sul fatto che "Do the right
thing", significa anche "Fai una cosa di destra"), occupando
una pagina del New York Sun. Tra gli altri, oltre a Friedman, c'erano Grover
Norquist, leader del movimento per la riduzione fiscale, il neo governatore
Arnold Schwarzenegger e George Shultz segretario di Stato al tempo di Ronald
Reagan.
Ci si chiede come osteggiare il terrorismo? Certo non è la panacea di
tutti i mali, purtroppo, ma iniziamo a sottrarre una valanga di risorse ai criminali;
risorse che sono tali solo per via di una nostra disfunzione psicologica (la
"dissonanza cognitiva" legata alla parola "droga").
Percorrere strade alternative nelle politiche antidroga ci porterebbe anche
a sfruttare meglio quelle fonti energetiche alternative (come l'olio di cannabis
ottimo combustibile per il diesel, pulito e a basso costo) che ridurrebbero
la nostra forte dipendenza dal petrolio arabo.