Proibire fa la fortuna di criminali e terroristi
Pubblicato il 18 agosto 2004 su La Voce di Romagna in prima pagina

di Simone Mariotti

Alla mezzanotte del 15 gennaio 1920 John "the brain" Torrio, il re dei bordelli di Chicago, l'uomo che insegnò ad Al Capone tutto quello che sapeva, era la persona più felice in città. Il Congresso Americano gli aveva fatto il più grande dei regali sancendo con il Volstead Act e il XVIII emendamento alla Costituzione l'inizio del proibizionismo sugli alcolici. Al momento del suo pensionamento anticipato nel 1925 (a 43 anni), lasciò al suo scagnozzo Al Capone le chiavi, bagnate d'alcool, per entrare nella leggenda del crimine.
Il proibizionismo sull'alcool, voluto da tanti benpensanti come soluzione al degrado della civiltà americana, avrebbe segnato invece l'inizio di un dramma per l'intera nazione, che si vide abbandonata in balia di gangster e poliziotti corrotti. Dal 16 gennaio 1920 l'alcool divenne oro e le distillerie clandestine iniziarono a sorgere come funghi dopo un temporale. Un po' come oggi, dove gli agricoltori di alcuni stati poveri moltiplicano le loro storiche coltivazioni di coca o papavero d'oppio, cento volte più redditizie del grano.
Per la malavita dell'epoca il proibizionismo fu una benedizione. Chi ha visto il monumentale capolavoro di Sergio Leone "C'era una volta in America", non potrà non ricordarsi della bellissima immagine di James Woods, steso al sole sulla spiaggia di Miami, che leggendo la notizia della fine del proibizionismo si volta verso Robert de Niro dicendo: "Noodle, siamo disoccupati!".
Inizialmente la storia della proibizione sull'alcool è stata caratterizzata sostanzialmente dalla stessa valanga di falsità e paure irrazionali che colpiscono oggi la marijuana. L'alcool divenne il capro espiatorio dei mali tipici di una società in grande sviluppo, di una nazione che con la fine della prima guerra mondiale era diventata la più grande potenza del pianeta. Paradossalmente, ma non troppo, l'inizio del proibizionismo coincise, anzi stimolò il ricorso all'illegalità e alla corruzione morale di una nazione che si avviava a vivere il decennio più dissoluto e travolgente che la storia di quel paese ricordi.
I proclami del reverendo Billy Sunday, uno dei capi crociata per l'avvento del regime "dry" ("secco"), si dimostrarono essere una delle più disastrose analisi sociali mai proclamate. "Il regno delle lacrime è finito", disse nel '20, "gli slums saranno solo un ricordo. Trasformeremo le nostre prigioni in fabbriche e le nostre celle in magazzini e granai. Gli uomini cammineranno a testa alta, adesso, e le donne sorrideranno e i bambini rideranno. L'inferno rimarrà sfitto per sempre". Milton Friedman, premio Nobel per l'economia nel '76 e storico antiproibizionista anche sulle droghe, dalle colonne di Newsweek, nel 1972 ricordò le fanatiche parole di Sunday aggiungendo: "Oggi sappiamo quanto si sbagliasse. Nuove prigioni e nuove celle dovettero essere costruite per ospitare i criminali proliferati in virtù della trasformazione del consumo di bevande alcoliche in un crimine contro lo Stato. Il proibizionismo minò il rispetto della legge, corruppe i suoi tutori, creò un clima morale di decadenza e, in definitiva, non arrestò il consumo di alcool".
Ma Sunday non era solo. Persino eminenti economisti dell'epoca poggiarono parte delle loro previsioni fidando sulla nuova sobrietà imposta alla nazione. Uno di questi fu il grande Irving Fischer di Yale. Secondo il professore (che non si accorse minimamente del disastro incombente su Wall Street) uno dei motivi di fiducia sulla salute e stabilità dell'economia, proprio nel '29, era dato dal fatto che il mercato avesse ulteriori grosse potenzialità perché doveva ancora esprimere la maggiore produttività che il proibizionismo sugli alcolici aveva imposto ai lavoratori americani, più sobri e quindi più affidabili. Questa teoria della "sobrietà" aveva fatto presa su un certo numero di persone. In un articolo apparso sul New York Erald Tribune del 2 gennaio 1929 (9 mesi prima del Grande Crollo), un commentatore entusiasta della felice situazione di mercato scrisse: "molti aspetti diversi hanno contribuito a questo felice risultato (il boon di borsa che durava da anni) compresa l'eliminazione dalla nostra nazione e dalla nostra vita dei saloon con i loro aspetti distruttivi e la conseguente sobrietà che si è diffusa tra la popolazione. La maggior parte del denaro precedentemente speso nei saloon è andato costantemente a beneficio di un innalzamento del tenore di vita, verso gli investimenti e le casse di risparmio".

La storia non ha insegnato nulla
Erano solo sogni, illusioni, speranze. Quasi tutti si rifiutavano di vedere gli eccessi del tempo (sia morali che finanziari), ubriachi più che mai proprio durante la proibizione, in quella che Francis Scott Fitzgerald definì "l'orgia più cara della storia".
Gli americani di allora ebbero la forza ed il coraggio di tornare indietro. F.D. Roosevelt, che prese la storica decisone di tornare al regime di libera vendita di alcolici, fu certamente aiutato da quella rivoluzione epocale che fu la Grande Depressione, che colpì pesantemente il paese e che richiedeva drastiche misure economiche e il taglio di molti ponti con il passato. Il proibizionismo sugli alcolici aveva mostrato in 15 anni tutti i suoi fallimenti. L'alcolismo restava, allora come oggi, un drammatico problema sociale, ma che andava risolto con altri mezzi, meno superficiali di un ridicolo divieto, che aveva trasformato mezza America in un bar clandestino, al di fuori di ogni controllo pubblico.
In questo terzo appuntamento sul mondo della cannabis, allarghiamo il tiro trattando in generale del terribile dramma globale della proibizione delle sostanze stupefacenti.
Dalle leggi americane sulla proibizione della marijuana del 1937 a quelle sull'eroina, cocaina ecc., di acqua sotto i ponti ne è passata molta. Interi imperi criminali sono stati creati grazie al proibizionismo sugli stupefacenti, e la lezione degli anni venti pare non abbia trovato alunni molto attenti nei legislatori di oggi. Il fallimento di tutte le politiche antidroga degli ultimi 50 anni (eccettuata quella olandese) è un dato di fatto che si dimostra da solo osservando la crescita esponenziale sia del consumo di droghe che del potere delle organizzazioni terroristico-crimnali che si sono foraggiate grazie al proibizionismo.
Eppure, oggi come allora, "alla Casa Bianca non siamo tutti impazziti" disse Georges Shultz, ex Segretario di Stato Americano al tempo del super proibizionista Ronald Reagan, che insieme al suo successore Bush senior, diede il via ad una delle più fallimentari campagne antidroga della storia. Le pene negli Usa degli anni '80 vengono inasprite ai massimi livelli, ma l'unico risultato fu di aver sprecato miliardi di dollari, incarcerato un quarto della popolazione di colore, senza aver intaccato di un millimetro né il potere delle narcomafie, che hanno continuato ad arricchirsi nei successivi 15 anni, né il numero dei consumatori, costantemente in crescita. Pazzia? Follia? No solo politica, continua Shultz "il fatto è che non arriveremo a nessun risultato, fino a quando non saremo in grado di separare la criminalità dal commercio della droga e gli incentivi per la criminalità da quest'ultimo", ma aggiunge anche: "il problema è che fino a che uno è alla Casa Bianca non lo dirà mai".
Pochi governanti (non solo in America) hanno il coraggio di prendersi la patata bollente in mano, affrontare schiere di elettori, soprattutto i religiosi, restii a cambiare il loro pregiudizio. Pochi ministri desiderano faticare per spiegare la necessità di un mutamento di approccio, o scomodarsi negando quello che tutti superficialmente si aspettano di sentirsi dire: "fa male, quindi proibiamo". Fortunatamente in alcuni paesi d'Europa, oltre l'Olanda, si stanno iniziando a sperimentare nuovi approcci, soprattutto in fatto di cannabis. L'Italia invece, in particolare se passerà la legge Fini, resta con la Francia, uno dei paladini della proibizione.

Mostri di ieri e di oggi
L'alcool è oggi tornato legale quasi ovunque, ma la proibizione sugli altri stupefacenti ha creato negli ultimi decenni mostri ben più terribili di Al Capone, che meritano di essere ricordati tra le più grandi tragedie del nostro tempo. Se in Italia sono ben note le opportunità sfruttate dalla Mafia e dalle altre organizzazioni nostrane, circa la distribuzione finale del prodotto e il controllo del traffico internazionale, attorno ai produttori sono continuamente sorti veri imperi del male.

Il triangolo d'oro
Tra la fine degli anni sessanta e i primi anni novanta, venti anni prima che l'Afghanistan assurgesse a leader mondiale della produzione d'oppio, in un'area sperduta tra Birmania (oggi Myanmar), Tailandia e Laos, grande circa quanto il Belgio, che sarebbe passata alla storia come Triangolo d'Oro (per via dell'oppio), un misterioso personaggio conosciuto come Khun Sa è stato il grande e inavvicinabile re dell'eroina. La sua leggendaria città nella foresta, Ho Mong, ha resistito 25 anni prima della sua resa, nel 1996, quando però il baricentro del narcotraffico si stava già spostando verso l'Asia centrale.
Le colture di papavero si insediarono negli anni '50 in quest'area di frontiera sia per la sua instabilità politica (conflitti etnici birmani guerre d'Indocina 1964-54 e del Vietnam 1960-75), che per l'inaccessibilità. Kuhn Sa fu un grande leader capace di trattare con il governo degli Stati Uniti, che sotto Carter tentò più volte di acquistare l'intera produzione di droga, una strategia messa in atto anche con la Turchia negli anni sessanta, ma i tempi erano cambiati ed il mercato si era molto più allargato. Si arrivò anche sul punto di fare uno storico accordo di acquisto, ma Kuhn Sa, ovviamente, da buon narco trafficante, aveva raccontato un discreto numero di frottole agli inviati di Washington, soprattutto sull'entità della produzione. La gran parte della droga era stata infatti nascosta con l'intenzione di venderla, dopo aver incassato i soldi americani. Ma fu scoperto e non se ne fece nulla, per fortuna. Andò meglio ai Talebani grazie all'"acume" dell'italiano Pino Arlacchi. Vediamo come.

Afghanistan
Nominato su insistenza di Prodi, alla direzione dell'agenzia delle Nazioni Unite per la lotta alla droga e al crimine (UNODC), Arlacchi fece un errore madornale dimostrando molta meno furbizia, e grande ignoranza storica, rispetto ai suoi colleghi americani. Si fece gabbare dai Talebani, versandogli milioni di dollari in cambio di una promessa (dei talebani !!!) di sradicamento delle coltivazioni. Nel '98 Arlacchi dichiara altezzoso a Panorama: "Abbiamo già elaborato un progetto di sviluppo alternativo per tutto il paese: occorrono soltanto 25 milioni di dollari all'anno per 10 anni. Nei primi 5 contiamo di eliminare tutta la produzione, nei seguenti di consolidare il risultato in modo da renderlo permanente" Dopo solo tre anni la produzione talebana di oppio esplose. Questi estremisti islamici giunsero al potere tra il 1994 e il 1996. La loro terribile escalation è purtroppo cosa nota. Meno però si è discusso su cosa abbia foraggiato ed arricchito il loro regime. Come il proibizionismo degli anni venti creò Al Capone senza far calare di un goccio il consumo di alcolici, la folle e fallimentare lotta al commercio clandestino degli ultimi tren'anni, non solo non ha contenuto la produzione mondiale, ma ha permesso a terroristi, guerriglieri e dittatori di compiere le azioni più atroci contro la civiltà. Ancora oggi, tanto per un confronto con i proclami di Arlacchi, secondo le disarmanti dichiarazioni del nuovo direttore dell'ufficio antidroga dell'ONU, Antonio Maria Costa, la produzione di oppio afgano è più florida che mai, e l'annata 2004 sarà straordinaria per quantità. E lo sarà ancora per i prossimi vent'anni. Sempre che un po' di saggezza non spinga verso una modifica del regime proibizionista. Nel frattempo sono arrivati grandi ringraziamenti, prima dal Mullah Omar e compagni, Osama compreso, oggi dai signori della guerra che controllano gran parte del paese. Esattemante come accade da 30 anni in Colombia. Vediamone uno spaccato.

Colombia
1982. Pablo Emilio Escobar Gaviria è al culmine del suo successo, dopo qualche anno la rivista americana Forbes lo avrebbe eletto uno dei 10 uomini più ricchi e potenti del mondo. La coca colombiana del cartello di Medellin, da lui organizzato dai primi anni settanta grazie al proibizionismo globale, sta coprendo d'oro la nazione. Duro e spietato, Escobar è temuto e amato; viene pure eletto al parlamento. La sua uccisione nel '93, secondo le dichiarazioni di molti, avrebbe dovuto segnare un punto di svolta della lotta al narcotraffico, ma le cose sono continuamente peggiorate. Il cartello concorrente della città di Cali festeggiò la morte di Escobar e ne prese il posto, e da quando anche i signori di Cali furono sconfitti a metà degli anni novanta, l'esercito ribelle del FARC si è fatto avanti a dettare la legge. Oggi la Colombia continua ad essere uno stato in balia dei narcos come ci ricorda la copertina di luglio 2004 del National Geographic, dedicata ai guerriglieri del FARC che oggi controllano tutta la produzione di cocaina nel sud del paese, finanziandosi tassando al 30% tutto il commercio che avviene nei loro territori.

Laos
Per l'ennesima volta si tenta la strada dell'accordo governativo per lo sradicamento. Il Laos è il terzo produttore mondiale di oppio dopo Afghanistan e Myanmar. Il governo, "democratico" ed "affidabile" come quello telebano, si è impegnato in una campagna di distruzione delle coltivazioni in cambio di infrastrutture da parte delle Nazioni Unite. Ma i trafficanti Cinesi continuano ad arrivare copiosi nelle province laotiane del nord per acquistare in massa il ricco (per loro) prodotto.

Carceri lager, giustizia lenta, tasse elevate
Tornando alla nostra realtà, oltre la metà della popolazione carceraria italiana, pesantemente in esubero, è dentro per reati connessi e creati unicamente dal proibizionismo sulle droghe. Valanghe di soldi pubblici vengono sprecati da decenni per sostenere le forze dell'ordine in questa assurda guerra titanica, con risultati pessimi, distraendole in tal modo da altre più proficue occupazioni di difesa del cittadino. Aggiungete i terribili costi della giustizia, iper appesantita dall'interminabile numero di processi; tutti i costi sociali e sanitari, senza parlare del dramma delle famiglie, lasciate per il 90% sole a combattere contro la criminalità organizzata (pochi giorni fa è stato denunciato un "pericolosissimo" criminale, un pensionato settantunenne di Ventimiglia che coltivava 3, dico 3, piante di marijuana per il figlio per allontanarlo dal contato con la malavita), e dei tossicodipendenti in balia di "roba" tagliata con gesso o stricnina che causa ogni anno un'enormità di morti per overdose e "schifodose". Sommando tutto questo si arriva ad una somma di denaro gigantesca, stimabile in circa 30.000 miliardi di vecchie lire all'anno, come una manovra finanziaria extra, una pesante perenne sanguisuga nelle tasche degli italiani, totalmente inutile nei risultati.
Poi ci sono le spese "dirette", quelle che i cittadini consumatori versano ai trafficanti, e che arricchiscono come visto, inere legioni di criminali. Qual'è il costo sociale indiretto di questo tipo di finanziamento? Probabilmente maggiore di tutti gli altri. La spesa diretta è invece più quantificabile. Guido Blumir, ha calcolato che, solo per la marijuana, i quattro milioni di consumatori italiani sprecano circa 10.000 mld di lire l'anno. Se fosse legalizzata la spesa scenderebbe a 2.000 miliardi di lire l'anno, liberando altri 8.000 miliardi che oltretutto non andrebbero a finanziare guerriglieri e mafiosi.

Il proibizionismo sulle sostanze stupefacenti resterà nella memoria futura come una delle più grandi e costose assurdità del nostro tempo, così come il proibizionismo sugli alcolici lo fu per gli anni venti. La settimana prossima si concluderà questa serie di quattro articoli; scopriremo perché si è giunti a questa follia, e perché toccò proprio alla marijuana ad essere trasformata da erba medica a nemico pubblico n°1.









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