Pubblicato il 14 gennaio 2010 su Le Ragioni dell'Occidente
(supplemento mensile de La Voce di Romagna), col titolo Ma
di chi ti fidi...?
di Simone Mariotti
Quando si parla di clima e ambiente ci sono tre categorie di
persone.
Ci sono quelli che per definizione devono negare sempre ogni problema, quindi
anche questo, in nome a volte di una scelta di vita costruita su una forte base
egoistica (nega sempre ogni problema e vivrai alla grande, che delle grane se
ne occuperanno gli altri), e altre volte in nome di un gruzzolo di quattrini
messi a disposizione da lobby di vario tipo. Oppure c'è chi nega senza
secondi fini: è semplicemente faticoso non farlo.
Poi ci sono quelli all'estremo opposto che vedono drammi ovunque. Gli ecocatrastrofisti
sono quasi più pericolosi perché da un lato non accettano che
il mondo possa cambiare senza che ciò voglia dire necessariamente una
catastrofe, dall'altro minano la credibilità degli ambientalisti più
seri. I negazionisti usano abilmente le argomentazioni dei catastrofisti, che
sono meno dell'1% della comunità ambientalista, spacciando le loro tesi
come fossero il verbo di ogni scienziato. Il negazionista egoista, infatti,
va a nozze con la distorsione della verità. Distorsione che l'ecocatastrofista
compie ingenuamente in preda al suo delirio.
Infine c'è una grande massa di persone, che fortunatamente comprende
la stragrande maggioranza di scienziati, cittadini, politici e capi di stato,
che il problema del riscaldamento globale non lo nega affatto, ma si chiede
se sia possibile o no fare qualcosa, e come, e a chi farne pagare il prezzo,
sempre che ci sia un prezzo da pagare.
Capi di stati grandi e piccoli, infatti, discutono da anni su come bloccare
il processo, non sul se ci sia o no un processo negativo da bloccare. Il fatto
è che per interessi politici ed economici, tutti vogliono fare il
free rider, quello che non paga il biglietto sul tram, usufruendo di un
viaggio pagato da altri, sperando di continuare farla franca. E a livello globale
su queste cose un vero controllare non ci potrà mai essere.
Forse però chi siede a questi meeting fantasmagorici modello Kyoto &
Co. dovrebbe fare meglio i conti e invitare qualche economista in più
e qualche scienziato in meno, che tanto che siamo messi male lo sappiamo già.
Qui non si può trattare tutta la materia e io non sono uno scienziato,
però spesso mi occupo di economia e uno dei problemi principali nel mettere
in atto le strategie legate al contenimento delle emissioni di CO2 sembra siano
i costi. Sembra...
Riporto di seguito un esempio tratto della realtà americana citato da
Paul Krugman qualche settimana fa sul New York Times (e pubblicato in Italia
da Repubblica), in cui si sosteneva anche che un eventuale accordo a Copenaghen,
poi mancato, probabilmente avrebbe giovato sia al clima che alla ripresa dell'economia.
Perché? Lascio a lui la risposta:
"Semplice, prima di tutto perché gli incentivi
finanziari funzionano. Gli interventi sul clima, se saranno presi, assumeranno
la forma di provvedimenti cap and trade: alle aziende non sarà imposto
che cosa produrre o come produrlo, ma di acquistare i permessi pertinenti alle
loro quote di emissione di anidride carbonica e altri gas serra. Di conseguenza,
esse saranno in grado di aumentare i loro utili soltanto se produrranno meno
CO2: ci sono buoni motivi per credere che saranno stimolate a dar prova di creatività
e ingegnosità per riuscirci. [...]
Di una cosa si può star certi: offrendo i giusti incentivi, si troverebbero
molte soluzioni. La verità è che i conservatori che prevedono
una sorte funesta per l'economia se dovessimo ingaggiare una lotta al cambiamento
del clima stanno tradendo i loro stessi principi: affermano infatti di credere
che il capitalismo è estremamente adattabile, che la magia del mercato
è in grado di affrontare qualsiasi problema. Per qualche strano motivo,
però, insistono che il cap and trade - un sistema specificatamente messo
a punto per far sì che gli incentivi di mercato siano messi in relazione
diretta coni problemi ambientali - non funzionerà. Beh, si sbagliano.
E si sbagliano ancora una volta, perché siamo già passati attraverso
qualcosa di analogo. Le polemiche degli anni Ottanta sulle piogge acide da molti
punti di vista furono proprio una sorta di prova generale dell'odierno scontro
sul cambiamento climatico. Allora come adesso gli ideologi di destra smentirono
e confutarono le opinioni scientifiche. Allora come adesso i gruppi industriali
dichiararono che qualsiasi tentativo di ridurre le emissioni avrebbe inflitto
gravi danni all'economia. E invece gli Stati Uniti negli anni Novanta hanno
introdotto ugualmente un sistema cap and trade per il diossido di zolfo, e indovinate
un po'? Lo stratagemma si è rivelato utile e ha assicurato una drastica
riduzione dell'inquinamento con un costo inferiore a quello previsto. Ridurre
i gas serra sarà sicuramente una sfida più vasta e più
complessa, ma è molto probabile che anche in questo caso resteremo sorpresi
da come sarà facile, una volta iniziato.[...]"
Il "cap and trade" è una ricetta che va bene
ovunque? Può essere meglio la Carbon Tax? Non posso stabilirlo io. A
me però del riscaldamento globale frega, e molto. Non mi fido troppo
né di chi profetizza l'apocalisse né di chi nega tutto in nome
di una capacità di autocontrollo illimitato del pianeta (soprattutto
se a farlo sono vecchi lord inglesi, snobbati persino di conservatori e con
nostalgie per la ribalta), anche perché in mezzo ci potrebbe essere (anzi
c'è già) l'esplosione di altri costi, come quelli sanitari dovuti
alle malattie legate all'inquinamento (che produce CO2) che sorgerebbero (e
anche loro già ci sono) nella eventuale fase di adattamento. Preferisco
le strade più virtuose e lucide alla Krugman, che però per essere
attuate necessitano, come sempre, di politici coraggiosi e capaci di guardare
al di là del proprio mandato e di una cultura collettiva che non premi
i comportamenti da free rider, purtroppo diffusi col beneplacito dei negazionisti.
Paul Krugman
Un impianto a energia solare
Un insolito free rider