Pubblicato il 16 dicembre 2009 su La Voce di Romagna
di Simone Mariotti
Kumily, montagne del Kerala meridionale (India del Sud), 4
settembre 2009.
La notte non era stata una delle mie più gloriose, ma migliore di quella
precedente che mi aveva visto a stretto contatto con il piccolo bagno della
stanza che avevo preso al Coffee Inn. Mi ero rimesso a posto molto in fretta,
ma avevo una gran voglia di andarmene da quel luogo sì carino, ma che
sembrava tanto una specie di Disneyland in versione forestale, dove tutto era
organizzato e tutto un po' scontato. Ma c'era comunque una delle più
grandi riserve al mondo per la salvaguardia della tigre, e ogni cosa ruotava
attorno a essa, e lasciare un po' di soldi al parco era quasi doveroso, non
molto avventuroso, ma doveroso, ed era quel che contava.
La stazione degli autobus di Kumily era il solito spiazzo caotico e polveroso
come lo trovi in tutta l'India, con i bestioni della Tata colorati e malridotti
che si muovono con disordinata autorevolezza, strombazzando sereni, mentre i
venditori di samosa, noccioline, ananas, giornaletti e molto altro ancora attendono
di salire sul mezzo che sta arrivando per tirar su qualche rupia.
"L'autobus diretto per Munnar, quello delle 14, oggi non
parte".
La notizia ferale, che in realtà si rivelò provvidenziale, me
la diede un uomo in divisa, nervosetto che stava nell'ufficio della stazione,
"prova a sentire con qualcuna delle compagnie private, ma tanto non c'è
nulla", insisteva.
"Come mai? E' sicuro? Mi avevano detto che uno c'era comunque".
"Sì è rotto a metà strada e arriverà solo stasera.
Quindi riparte domani".
Mi diressi verso un'altro ufficio, dove un addetto, questa volta ben più
rilassato, in maniche di camicia e lunki, il lenzuolone indossato a mo' di sottanone,
diffusissimo tra gli uomini del Kerala, ascoltata la mia richiesta, si guardò
attorno e mi indicò un controllore appena sceso da un bus, urlandogli
una qualche spiegazione in lingua malayalam. Come un pacco venni spedito sopra
un pulmino rosso che stava partendo, ma fatti pochi metri, ero di nuovo a terra
perché l'autista, che parlava un'inglese più comprensibile dei
suoi colleghi, capito dove dovevo andare realmente, mi disse che se restavo
a bordo non sarei arrivato neanche e a metà strada e che per giungere
sino alle piantagioni di tè di Munnar, c'è era tutti i giorni
un diretto... quello delle 14!
Vistomi di nuovo a terra, l'uomo in "gonnella" mi chiamò e
mi disse che un autobus per Munnar forse c'era alle 15.45, ma non era sicuro
che arrivasse in tempo lì a Kumily. E la parola "forse" in
India ha un suono ancora meno rassicurante che altrove.
"Come ci arrivo a Munnar, non mi dire che devo restare
qui ancora una notte?"
Ero tornato al primo ufficio, dove l'uomo in divisa, che in realtà, a
guardarlo bene, probabilmente aveva dieci anni meno di me, anche se ne dimostrava
cinque di più, stava leggendo un giornale. Questa volta sorridente, si
alzò e diede un'occhiata molto veloce alla mappa che era appesa al muro,
giusto per cercare un dettaglio che forse mancava nella sua mente o una conferma.
Rimuginato il tutto per un attimo, mi consegnò un piccolo pezzo di carta
lungo dieci centimetri e largo tre, che ancora conservo, su cui aveva scritto,
oltre a Kumily e Munnar, altri tre nomi di città, o meglio di piccoli
paesini, in ognuno dei quali avrei dovuto prendere una coincidenza.
"Devo cambiare 4 autobus, sei sicuro?", già mi vedevo passare
la notte in mezzo alle montagne, perché se avessi dovuto scommettere
sulla mia capacità di centrare in un tempo ragionevole tutti i cambi,
in una tratta che un diretto impiegava oltre cinque ore a coprire, non avrei
puntato una rupia sul fatto che sarei riuscito ad arrivare a Munnar prima di
mezzanotte.
Perché mi fossi trovato in quella condizione, senza
aver programmato quasi nulla, senza essermi informato con precisione su orari
tempi di percorrenza, senza la certezza, ma solo la speranza di arrivare e di
trovare un posto per dormire, speranza che si affidava a un passaparola di una
settimana prima, come dirò poi, non lo so. Ma era, ed è, bello
così, e chi lo ha provato lo capisce. Sentirsi vivi perché privilegiati
nel riuscire ad assaporare la bellezza di un cammino nella sua complicata imprevedibilità.
Dopotutto non è questo lo scopo del viaggiare? Viaggiare, appunto, per
vedere. Spostarsi anche scomodi, anche senza obiettivi, anche perdendo tempo,
indifferenti alla pioggia e al vento, alla solitudine, allo sporco, al disagio.
Ma lì per guardare, riempirsi del mondo che ti siede accanto, mentre
la meta finale è quasi solo il punto di partenza di un nuovo percorso,
anche lui vago.
La prima destinazione era Paliynmaly.
Ricaricato lo zaino sulle spalle tornai in trincea. Questa volta mi avvicinai
subito a un gruppo di bigliettai che parlottavano in attesa di prendere servizio.
Mostro loro il mio mini foglietto e ancora una volta salii quasi al volo su
un bus già strapieno, e ancora una volta sentii il bigliettaio, da terra,
urlare delle parole all'autista e l'ultima di queste era il nome della mia prima
destinazione.
Dopo una mezzora molti dei passeggeri erano già scesi, anche se avevamo
percorso appena una quindicina di km. Riuscii anche a trovare un posto a sedere
e potei osservare meglio quel che accadeva attorno a me. Avevo già fatto
tanti spostamenti in autobus e l'ambiente non mi era assolutamente nuovo. Ma
non so perché, quel viaggio di quel giorno, quel sali e scendi, quella
diversità che caratterizzò ogni tappa, una così vicina
all'altra, mi fecero fissare nella memoria, meglio che in altre occasioni, tanti
particolari di quella parte così tipica della vita indiana (gli spostamenti,
quasi delle "transumanze" dato il numero di persone coinvolte, con
spesso animali al seguito), a cominciare dagli indaffaratissimi e meticolosissimi
bigliettai.
Erano tanti anni che non ne vedevo di quel tipo. Mi ricordavano quelli che c'erano
sul flilobus di Rimini, quando da bambino lo prendevo tutti i giorni per andare
a scuola ai Salesiani. Avevano gli stessi mini blocchetti per i biglietti, quelli
fatti di carta colorata con toni pastello, verdi, gialli, blu, rossi, grigi.
Ricordo che io e i miei amici osservavamo sempre il bigliettaio, che stava sul
suo seggiolone davanti alla porta centrale, per vedere se durante il tragitto
finiva uno di quei piccoli blocchi, per essere pronti a chiedergli la mazzetta
rimasta prima che la buttasse via, come fosse qualcosa di importante, una specie
di finto denaro che poi utilizzavamo per giocare. Roba che a raccontarla ai
bambini di oggi ti danno del disadattato, e che invece per noi aveva un suo
significato, quasi rituale, un contatto con il mondo ufficiale dei grandi, che
ancora godeva di rispetto, e noi con quei mazzetti ce ne appropriavamo di un
pezzettino.
I bigliettai indiani avevano un borsello identico a quello che vedevo nei miei
bus infantili, che conteneva anche un quadernino su cui fare i conti precisi
dei biglietti staccati e dei soldi incassati, che ovviamente dovevano quadrare.
Ne ho visti tanti e quasi tutti, appena all'interno si stabiliva un po' di calma,
si rintanavano su uno dei sedili liberi a fare i calcoli con grande attenzione;
a volte restavano anche in piedi, poggiandosi su qualche schienale, quando la
ressa non permetteva di fare altrimenti. E non poche volte si sono messi seduti
vicino a me, ché spesso c'era un posto vuoto di fianco.
Il primo autobus di quel mio curioso viaggio era un classico
Tata rosso e giallo. Ancora non pioveva e i finestrini erano tutti aperti. Lo
sono praticamente sempre e nessuno di essi ha vetro o plexiglas per permettere
una chiusura ermetica. Hanno però una tela di plastica grossa che cala
dall'alto a soffietto una volta sbloccata e che copre molto efficacemente e
velocemente dalla pioggia improvvisa, che spesso arriva violenta nel giro di
pochi secondi, e anche dal freddo. Durante la stagione delle piogge è
un continuo su e giù, con la luce, il vento, i profumi e i rumori della
vita esterna che entrano ed escono. Quando sono tutti chiusi si accendono le
luci, che non servono poi a molto perché dentro all'autobus si crea sempre
una specie di effetto cinema grazie alla quasi onnipresente tv, che c'è
in ogni carrozzone che si rispetti, sempre accesa, sempre con un film made in
Bollywood sparato a tutto volume.
Sono i polpettoni indiani prodotti a Bombay, e sempre più anche a Madras,
e che hanno una particolarità: l'eroe vince sempre per tutto il film.
Le trame seguono un canovaccio ricorrente: storie d'amore, problemi familiari,
gang che vogliono far del male alla bella di turno ecc. A differenza dei loro
omologhi dell'Estremo Oriente, quelli prodotti più che altro a Hong Kong,
dove in trame simili il divo di turno le prende di santa ragione sino agli ultimi
dieci minuti, per poi scatenarsi miracolosamente alla Braccio di ferro e salvare
la sua donna dai cattivi, qui, perlomeno in tutti quelli che mi è capitato
di vedere sui pullman, mai una volta il protagonista è parso essere in
difficoltà, e le sue imprese avrebbero fatto impallidire, non dico Superman,
ma certamente Batman e Uomo Ragno! Nel 95% dei casi è trash estremo,
roba forte; Ciccio e Franco al confronto sono due seriosoni da cineclub.
Se l'autobus "disgraziatamente" è sprovvisto di TV, è
la musica a farla da padrona, ed è sempre e solo musica in lingua locale.
L'attaccamento degli indiani alla loro cultura è infatti encomiabile,
e inattaccabile.
Continua...
Fine della prima di tre puntate
I biglietti degli autobus indiani e il mio piccolo foglietto lasciapassare
Una strada in un paesino dell'India del Sud
Un autobus indiano (foto scattata in Tamil Nadu - agosto 2009)