Pubblicato il 7 ottobre 2009 su La Voce di Romagna
in prima pagina
di Simone Mariotti
La nozione che le grandi sventure sono l'opera di un grande
e malefico avventuriero [...] è molto popolare nella nostra epoca. Fin
dai tempi della ricerca dell'architetto della debacle di Wall Street (del 1929,
ndr), abbiamo avuto clamori per l'uomo che ha lasciato entrare i russi in Europa
occidentale per l'uomo che perse la Cina e per l'uomo che piegò Mac Arthur
in Corea. Anche se questa può essere un vocazione innocua , non suggerisce
una visione particolarmente buona del processo storico. Nessuno fu responsabile
del grande crash di Wall Street, nessuno disegnò e architettò
la speculazione che lo precedette. Ambedue furono il prodotto della libertà
di scelta e delle decisioni di migliaia di individui. Questi ultimi non furono
portati al macello. Si sentirono costretti ad andarci dall'insania che si è
sempre impossessata della gente che a sua volta era stata presa dalla nozione
che sarebbe potuta diventare molto ricca.
John Kenneth Galbraith, Il grande crollo, 1954
Alla fine tutto torna. Passano le mode, passano le ubriacature,
il classico resta, perché quello che Calvino disse per la letteratura
vale anche in finanza: un classico ha sempre qualcosa da dire.
Quest'anno ricorrono due anniversari, uno per tutti, uno personale. L'anniversario
pubblico sono le nozze d'argento tra gli italiani e i fondi comuni di investimento,
strumento nato in America negli anni '20, poi ripensato negli anni '50, e che
da noi arrivò 30 anni dopo.
Quello personale risale a 5 anni dopo la nascita dei fondi. Nel 1989, pochi
mesi dopo che mi ero iscritto alla facoltà di Economia dell'Università
di Bologna, Il Sole 24 Ore pubblicò una serie di fascicoletti
ricavabili dalle pagine del giornale e chiamata "Dizionario pratico dell'economia".
Uno dei fascicoli era dedicato al primo rapporto sui nuovi Fondi Comuni
di Investimento. A leggere oggi quelle pagine sembra di affacciarsi su
epoche quasi preistoriche, se ci si sofferma ai numeri. Appena 140 i fondi allora
presenti sul mercato, quando oggi, dopo l'arrivo di tutte le società
estere, sono varie migliaia. Quell'inserto ricordava che, già nei primi
due o tre anni trascorsi dalla nascita, ogni società si era oramai dotata
del "tris fondamentale di fondi: un azionario, un bilanciato e un obbligazionario".
Attualmente ogni società che si "rispetti" offre decine di
prodotti, da quelli più generici come i "vecchi" bilanciati
a quelli super specializzati. Ma è stato un vero "sviluppo"?
Sotto vari punti di vista sì, ma le parole di Calvino non vanno dimenticate.
Il classico resta sempre, e per la maggior parte dei risparmiatori-investitori
medio piccoli, è sempre la scelta migliore.
Bistrattati negli anni passati, quasi fossero dei dinosauri costosi e noiosi,
i fondi comuni negli ultimi anni sono stati abbandonati dalle banche, e in un
sistema in cui domina l'offerta, vuol dire catastrofe per quell'industria. Anche
i risparmiatori negli anni si sono innamorati sempre più di "altro",
soprattutto delle singole obbligazioni a rendimenti "più elevati":
siamo partiti da Argentina, dieci anni fa, per passare a tutta la trafila di
titoli falliti o crollati, culminata col disastro dei titoli bancari, così
diffusi, nel 2008. Da allora il vecchio fondo ha iniziato a essere più
apprezzato per quello che è, e a 25 anni dalla sua nascita resta forse
il più democratico e semplice degli strumenti finanziari (oggi ci sono
anche gli ETF), capace di garantire a tutti lo stesso trattamento, e che con
poche migliaia di euro ti permette di diversificare evitando il rischio, prima
non troppo considerato, di incappare in qualche titolo marcio.
Calvino però vale anche qui. Presi dalla foga della modernità,
l'industria dei fondi si era ubriacata arrivando a sfornare in continuazione
prodotti su prodotti fino all'ossesso (malattia che sta cogliendo oggi gli ETF).
Prima, dagli anni novanta ai primi del nuovo millennio, puntando sulle specializzazioni
geografico-settoriali. Poi ultimamente sui fondi flessibili, rinominati, tanto
per re-inventare se stessi dopo i primi disastri, "a ritorno assoluto"
o total return, e legati spesso alla nuova "misura divina"
del rischio tanto di moda negli ultimi anni e super sputtanata nel 2008, il
Var (Value at risk), il nuovo coniglio uscito dal cappello dei matematici-statistici
che doveva stabilire al 95% la perdita massima nello scenario peggiore di mercato.
Sistema di misura andato invece a picco nell'ultimo tsunami finanziario.
Oggi ancora lo si usa, dato che le banche hanno investito tanto nel sviluppare
modelli e sistemi di controllo del rischio basati sul Var. Pazienza, anche se
nuove delusioni arriveranno. Ma una via di fuga per tutti c'è, ed è
ancora una volta il classico. E se tutti si fossero sempre limitati a quei semplici
generici prodotti nati 25 anni fa, un generico fondo obbligazionario e un semplicissimo
bilanciato, e se tutti fossero stati pazientemente in attesa senza saltare da
un carro all'altro, tentazione irresistibile, se non tutti, molti avrebbero
forse patito di meno le turbolenze e le scosse telluriche della finanza, e in
pochi cercherebbero ancora il "Grande Colpevole" da sempre evocato
in ogni disastro, come ricordava Galbraith.