Com'è difficile farci cambiare idea (anche se è errata) - Tra psiche e fin. (5)

Pubblicato il 16 settembre 2009 su La Voce di Romagna in prima pagina

di Simone Mariotti

Parlando in generale, vari studi suggeriscono come, una volta che nella mente delle persone si è formata un'ipotesi forte, esse si dimostrano incuranti delle informazioni successive che la contraddicono. Inoltre, presentano maggiori difficoltà a mutare il pensiero iniziale laddove questo poggia sulla base di evidenze deboli e superficiali. In psicologia questa distorsione cognitiva è chiamata distorsione confermativa (confirmatory bias).

Distorsione confermativa
In un classico esperimento realizzato da Bruner e Potter nel 1964, ad una novantina di persone fu chiesto di individuare il contenuto di alcune diapositive sfocate, che venivano mostrate loro aumentando gradualmente il livello di fuoco fino a un certo punto in cui le immagini non erano ancora totalmente definite. Sebbene il livello finale di fuoco fosse lo stesso per tutti, gli intervistati furono divisi in gruppi a seconda della maggiore o minore nitidezza da cui partiva il processo di messa a fuoco.
La cosa interessante fu che coloro che furono posti davanti a immagini molto sfocate e che quindi iniziarono a crearsi un'idea del contenuto delle varie diapositive a un livello di fuoco molto basso, continuarono nella loro convinzione anche quando le messe a fuoco successive avrebbero permesso di distinguere particolari che contraddicevano il loro pensiero iniziale e riuscirono a indovinare solo un quarto delle immagini mostrate loro.
Invece, pur arrivando allo stesso livello di fuoco finale, chi partì osservando immagini più nitide, ebbe meno tempo di crearsi un'idea distorta riuscendo alla fine a identificare un numero molto maggiore di soggetti. Come sottolinearono gli autori del test, le persone mostrarono delle evidenti difficoltà nel rigettare interpretazioni scorrette frutto della prima impressione.
Non solo, tendenza comune è quella di leggere in modo distorto le informazioni successive ambigue, utilizzandole come rafforzativi della propria tesi iniziale. Il dr. Matthew Rabin nel suo "Psychology and Economics" (Journal of Economic Literature, 1998) ricordava come un suo collega avesse assistito alla spiegazione di uno stesso modello economico, prima all'università di Chicago e successivamente al MIT di Boston. Si parlava di elasticità della domanda in situazione di oligopolio e di come, all'aumentare di essa, si giungesse a una situazione di concorrenza perfetta. La stessa identica formula illustrava come questa elasticità fosse una funzione del numero di aziende presenti sul mercato. Diverso però fu il commento dei due economisti. A Chicago gli studenti si sentirono dire: "Guardate quante poche imprese sono necessarie a generare un'elasticità infinita e concorrenza perfetta!". Al MIT invece prevaleva una visione più pessimistica "Guardate quanto grande deve essere il numero di imprese solo per avvicinarci lontanamente a un'elasticità infinita e alla concorrenza perfetta".
Un altro esempio molto significativo lo si può leggere in uno studio di J. Darley e P. Gross del 1983 ("A Hypothesis-Confirming Bias in Labeling Effects", Journal of Personality and Social Psychology). A 70 studenti universitari di Princeton fu chiesto di stimare le capacità scolastiche di una bambina di nove anni chiamata Hannah. Divisi in due gruppi, a uno di essi fu mostrato un video in cui la bambina veniva presentata come parte di un contesto, sia casalingo che scolastico, piuttosto benestante e da un foglio informativo la bimba risultava essere figlia di un avvocato e di una giornalista. All'altro gruppo il video mostrò un quadro della situazione più popolare e fu detto agli intervistati che i genitori di Hannah erano un operaio e una sarta che lavorava in casa. A questo punto i due gruppi vennero divisi in due. Alla metà di ogni gruppo fu chiesta una valutazione della capacità della bimba solo sulla base delle informazioni che avevano ricevuto. Il risultato premiò solo leggermente la bambina più "ricca": benché un piccolo pregiudizio si fosse formato nella mente degli intervistati, evidentemente essi non lo ritenevano sufficiente per basare su di esso un giudizio forte. Alle altre due metà fu fatto vedere un ulteriore video, questa volta identico per entrambi, in cui la bambina rispondeva ad alcune domande. Invitati ad esprimere il loro giudizio alla fine del video, le differenze tra questi due gruppi erano molto più marcate rispetto a quelle emerse tra coloro che si erano limitati ai dati iniziali. Gli intervistati si erano creati un'opinione sulle capacità della bambina in base al pregiudizio iniziale, dovuto alle differenti informazioni che avevano ricevuto. Furono però influenzati in modo più evidente dalla seconda informazione, che era identica, ma che ognuno interpretò come conferma delle aspettative che si erano create con il pregiudizio iniziale.
Tra i tanti realizzati al riguardo (persistenza delle proprie idee e rifiuto o distorsione di nuove informazioni), interessante fu anche un test su un gruppo di studenti a proposito della pena di morte realizzato da C.G.Lord, L.Ross e M.R.Lepper, nel 1979. Dopo aver selezionato tra 151 intervistati i 24 più convinti sostenitori della forza del potere di deterrenza insito nella pena e i 24 più scettici, fu sottoposta all'attenzione di questi 48 ragazzi, una stessa serie di studi, di contenuto volutamente ambiguo, sull'efficacia o meno della deterrenza. Testati nuovamente, risultò che, nel complesso, i due gruppi avevano letto a modo loro le stesse informazioni (oggettive e che offrivano lo stesso numero e la stessa qualità di prove sia a favore che contro) ed erano ancora più convinti della loro idea iniziale.

Karl Popper tra Marx, Freud e Adler
La conclusione di questo excursus sulla facilità con cui l'uomo conferma le proprie idee, leggendo in modo opportunistico le informazioni successive che si presentano sul suo cammino, la lascio alle parole del grande filosofo austriaco Karl Popper. In una conferenza tenuta negli anni cinquanta, egli notava come i seguaci di grandi pensatori, come Marx, Freud, Adler, trovassero conferme delle teorie che apprezzavano praticamente ovunque:
"Riscontrai che i miei amici, ammiratori di Marx, Freud e Adler, erano colpiti da alcuni elementi comuni a queste teorie (si riferisce alla teoria marxista della storia, alla psicanalisi freudiana, e alla psicologia soggettiva di Adler, precedentemente citate. L'intero brano è stato tratto da una conferenza tenuta alla Peterhouse di Cambridge nel 1953; nda) e soprattutto dal loro apparente potere esplicativo. Esse sembravano in grado di spiegare praticamente tutto ciò che accadeva nei campi cui si riferivano. Lo studio di una qualunque di esse sembrava avere l'effetto di una conversione o rivelazione intellettuale, che consentiva di levare gli occhi su una nuova verità, preclusa ai non iniziati. Una volta dischiusi in questo modo gli occhi, si scorgevano ovunque delle conferme: il mondo pullulava di verifiche della teoria. Qualunque cosa accadesse, la confermava sempre. La sua verità appariva perciò manifesta; e, quanto agli increduli, si trattava chiaramente di persone che non volevano vedere la verità manifesta, che si rifiutavano di vederla, o perché era contraria ai loro interessi di classe, o a causa delle loro repressioni tuttora "non-analizzate" e reclamanti ad alta voce un trattamento clinico.
L'elemento più caratteristico di questa situazione mi parve il flusso incessante delle conferme, delle osservazioni che "verificavano" le teorie in questione; e proprio questo punto di vista veniva sottolineato dai loro seguaci. Un marxista non poteva aprire un giornale senza trovarvi in ogni pagina una testimonianza in grado di confermare la sua interpretazione della storia; non soltanto per le notizie, ma anche per la loro presentazione - rilevante i pregiudizi classisti del giornale - e soprattutto, naturalmente, per quello che non diceva. Gli analisti freudiani sottolineavano che le loro teorie erano costantemente verificate dalle loro "osservazioni cliniche". Quanto ad Adler, una volta, nel 1919, gli riportai di un caso che non mi sembrava particolarmente adleriano, ma che egli non trovò alcuna difficoltà ad analizzare nei termini della sua teoria dei sentimenti di inferiorità, pur non avendo nemmeno visto il bambino. Un po' sconcertato, gli chiesi come poteva essere così sicuro. "A causa della mia esperienza di mille casi simili" egli rispose; al che non potei trattenermi dal commentare: "E con quest'ultimo caso, suppongo, la sua esperienza vanta milleuno casi".
Mi riferivo al fatto che le sue precedenti osservazioni potevano essere state non molto più valide di quest'ultima; che ciascuna era stata a sua volta interpretata alla luce della "esperienza precedente", essendo contemporaneamente considerata come ulteriore conferma".

Fine della penultima puntata
Continua...







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