Quel gran liberale di Friedman
Pubblicato il 22 novembre 2006 su La Voce di Romagna in prima pagina

di Simone Mariotti

Non è che abbia vissuto poco, e per tutto quello che ha portato a casa non può che essere soddisfatto. Ed infatti è sempre stato felice, appagato ed innamorato sino alla fine di Rose. Milton Friedman, il massimo esponente della scuola economica di Chicago, che ha sfornato premi Nobel come poche altre al mondo, lui in primis, si è spento a 94 anni giovedì scorso. Un amico mi ha scritto una mail dicendo che il mondo da quel giorno è meno libero. Il mondo non lo so, è l'Italia che mi preoccupa, e la differenza forse non sarà così evidente. Anche perché al giorno d'oggi le idee di Friedman, perlomeno in campo sociale, sono quasi bestemmie: l'individuo, le sue idee, la sua responsabilità, l'imparare dai propri errori sono concetti sempre meno di moda. I somari a scuola non lì si possono più bocciare, i lavativi hanno un futuro garantito anche fuori dal pubblico impiego, praticamente tutto il terziario è in mano a dei cartelli potentissimi ed inattaccabili, dalle tv alle assicurazioni, alla telefonia, o a monopoli quotati in borsa. Ci si ostina a difendere "i campioni" nazionali con l'intervento pubblico e non ci si accorge che la nostra politica monetaria (che conta dieci volte di più rispetto al "rischio" che Alitalia e Telecom finiscano in mani estere) è guidata da un francese. Non sei libero di scegliere se ricorrere alla fecondazione assistita né di scegliere se vaccinare o no tuo figlio.
Friedman non scrisse sono l'epico "A Monetary History of the United States 1867-1960" (a quattro mani con Anna Schwartz), ed altri testi che divennero il pane quotidiano del reaganismo e del thatcherismo, ma anche il libello "Free to Choose", tatto dall'omonima e fortunatissima serie di 10 puntate per la tv pubblica americana che nel 1980 condusse con la moglie Rose.
Friedman mi era simpatico, non lo posso negare, forse non il mio economista preferito, quasi troppo liberale anche per me (ma ci può essere un troppo al liberalismo?), ma era forte. Discuteva spesso col suo grande amico, altro colosso, J.K. Galbraith, anche lui appena deceduto e di qualche anno più vecchio, e col keeynesiano Samuelson, ma che rispetto reciproco che distingueva questi signori!
Uno dei suoi discepoli italiani, Antonio Martino, scrisse anni fa: "Quando, nel 1973, Friedman venne in Italia per una breve convalescenza dopo un'operazione a cuore aperto, fu invitato a colazione da un noto patrizio veneziano. Nel raccontarmi il lusso e l'ostentazione che aveva trovato in quella casa, Friedman commentò con un'affermazione che coloro che non lo conoscono troverebbero incredibile: "gente come quella riuscirebbe a far diventare comunista persino me!" La sua gentilezza d'animo, i suoi modi garbati anche quando critica senza esitazioni le argomentazioni dei suoi avversari gli hanno procurato l''amicizia oltre che l'ammirazione di quanti lo conoscono e le critiche astiose o malevole di chi non lo ha mai incontrato. Per chi poi ha avuto la fortuna di essere stato suo studente, che condivida o meno le sue idee politiche, Friedman resta un insuperato maestro. Basti per tutti l'opinione di Paul Samuelson, grande economista teorico, uno fra i primi vincitori del premio Nobel per le scienze economiche (1970), e esponente di spicco della sinistra politica americana, che ha così commentato l'attribuzione del premio Nobel al suo avversario di tante discussioni e polemiche: "La professione degli economisti si aspettava da tempo che Milton Friedman vincesse il premio Nobel per l'economia. La sua vittoria costituisce un doveroso riconoscimento del suo contributo scientifico e della sua leadership accademica". Dopo aver passato in rassegna con grande ammirazione la produzione scientifica di Friedman, Samuelson così conclude: "Il mondo lo ammira per i suoi successi. Chi lo conosce lo ammira per quello che è. Il fatto che lui e io, malgrado le nostre divergenze politiche e scientifiche, siamo rimasti buoni amici per oltre quarant'anni la dice lunga forse su di noi, ma ancor più, sarei propenso a credere, sulla natura scientifica dell'economia politica".
Oggi molti, soprattutto a destra, si riempiono la bocca di friedmanismio, di liberalismo, dimenticandosi però che il pensiero del grande economista era veramente da economista, e cioè razionale, e liberale, anche su questioni spinose e politicamente scomode come la droga.
Friedman non aveva moti dubbi: la droga, tutta, dovrebbe essere venduta nei tabaccai come le sigarette", diceva, "lo Stato non ha alcun diritto (o dovere) di impedire ad una persona adulta e responsabile di consumare droga, più di quanto questo stato proibisca il funambolismo o le sigarette col pretesto che si tratta di piaceri dannosi. […] Il proibizionismo sull'alcol aveva portato un indebolimento del rispetto della legge, e la guerra alla droga porta alle stesse conseguenze".
Opinione condivisa da altri economisti premiati col Nobel (Lester Thurow diceva che "coloro che conducono la guerra contro la droga non capiscono la teoria economica, la storia e neppure la cultura dei popoli"), ma chissà perché molti adulatori di Friedman tendono a dimenticare questa parte importante del suo pensiero.








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