Pubblicato il 19 novembre 2008 su La Voce di Romagna
in prima pagina
di Simone Mariotti
E poi primavera, e qualcosa cambiò/ Qualcuno moriva,
e su un ponte lasciò/ Lasciò i suoi vent'anni e qualcosa di più
/E dentro i miei panni, la rabbia che tu/ Da sempre mi dai, parlando per me/
Scavando nei pensieri miei,/ Guardandomi poi dall'alto all'ingiù/ E forse
io valgo di più.
(Stefano Rosso, Bologna 77)
Quando ho letto la notizia del clochard incendiato ho pensato
istintivamente, senza un vero motivato perché, e forse ingenuamente,
a Stefano Rosso, scomparso un paio di mesi fa e alla solitudine, amara e speranzosa
assieme, tante volte da lui cantata.
Le loro vicende non hanno nulla in comune s'intende, se non quel vago senso
di emarginazione che ti arriva da una vita, artistica o meno, vissuta in modo
non comune, ma buono. Buono come lo sono tutti i barboni, che trovatisi in una
situazione difficile da cui non sanno più uscire, alla delinquenza scelgono
gli angoli di strada, i ponti e le panchine per riappropriarsi anche loro di
un po' di quel mondo che li ha inghiottiti prima del tempo. Il nostro clochard
pare poi che si fosse messo a difendere il parco da spacciatori e delinquentelli
(che il "saggio" proibizionismo eleva a businessman di successo),
e forse sono loro che lo hanno punito.
Anche Stefano Rosso è stato spesso solo. Non era il più grande
cantautore italiano, non ha scritto decine di belle canzoni, non ne voglio fare
un'icona incompresa. Era bravo, era vero. Senza dare troppe colpe al destino,
come il barbone, è stato anche lui in parte causa di quel che è
diventato, che non poteva essere troppo diverso in un'italietta che ancora oggi,
trent'anni dopo, sgrana gli occhi alla parola "spinello", l'unica
nota ossessivamente ricordata dai TG il giorno della sua morte. Ma la sua arte,
nata dentro quell'utero della musica italiana che fu il Folkstudio di Roma,
non fu solo imprigionata nella sua "Storia disonesta". Ed era uno
che raccontava spesso, forse con più semplicità che poesia, di
quella brutta bestia che è la solitudine, che ti prende anche quando
non credi sia dietro l'angolo, quando hai sorriso fino a un momento prima. Dal
suo "letto 26" (durante un ricovero a Roma) cantò il mondo
che gli scorreva tra le dita e che non riusciva più a prendere, ma che
desiderava tanto.
"Via della Scala è sempre là/ e io dal letto 26/ malato
di pazienza sto/ e aspetto chi non torna più"
All'interno ognuno del suo cosmo, fanno entrambi parte di quelle persone condannate
nella fortuna, nel fisco, negli affetti a un destino di terza fila, dove l'apparenza
se ne va assieme alla loro paura di perdere quello che oramai non hanno più.
Quell'apparenza che invece ossessiona troppe persone, specialmente quelle più
"ispirate" dall'alto.
Come quelli che ti chiedono perché non ti sei sposato, come fosse una
formalità, e credo che per loro lo sia stata. Una cosa che si fa a un
certo punto, non importa con chi, basta obbedire, come sempre, ai Suoi comandamenti,
e contenersi alle passioni prescritte da un breviario. O chi, con un sadismo
tipicamente bigotto, propone provocatoriamente come fosse una gran trovata (è
capitato di legger anche questo), di non dare la pensione a chi non ha figli.
Come se non bastasse l'aver vissuto una vita senza qualcuno accanto o la sofferenza
di non aver avuto un figlio cercato, o una vita "normale". Pure la
pensione togliamoli! Ma la violenza di questo fanatismo non mi meraviglia più,
neppure quando leggo le misere parole sputate sulla sofferenza e la solitudine
del padre di Eluana Englaro.
Chi è solo oramai non ha più valore, proprio perché è
solo. "Aiutiamo la famiglia (che è sacra)", dicono tutti, tanto
di chi una famiglia non l'ha chi se ne frega. Colpa sua, che s'arrangi, magari
su una panchina, in compagnia di altri barboni "nuovi", giovani, di
quella generazione che ne sta producendo tanti, che si rifugiano negli aeroporti
per qualche ora di sonno prima di fuggire la mattina da occhi indiscreti. Barboni
senza buchi nei pantaloni, "single di ritorno", a volte con prole,
gente tornata sola, vomitata da un mondo di famiglie che devono essere felici
per forza.
Stefano Rosso cantava di un mondo sotterraneo e vero, che combattendo la solitudine
accettava con ironica rassegnazione l'ignoranza nazionale viva più che
mai che ti inculcava che "la marijuana ti fa male", mentre "il
chianti ammazza l'anemia". Ha cantato per Giorgiana Masi (Bologna 77),
la diciottenne militante radicale uccisa nel '77 durante una manifestazione
a Roma, e canterebbe oggi per Andrea Severi. E soprattutto continuerebbe a cantare
per chi è solo, per chi da un letto 26 come il suo si vuole alzare più
felice:
"Via della Scala è sempre là/ e io
dal letto 26/ io chiudo gli occhi e penso a te/ ti sento e invece non ci sei".