Tutti figli di Adamo, investitore maldestro
Pubblicato il 25 giugno 2008 su La Voce di Romagna in prima pagina

di Simone Mariotti

Tocca a tutti, prima o poi. Almeno una volta nella storia, o forse, più correttamente, una volta ogni generazione, un mercato finanziario, specialmente se in via dello sviluppo, subisce il trauma di una bolla speculativa, trascinandosi dietro molti dei suoi vicini, vicini che oggi, grazie alla tecnologia, possono essere geograficamente anche assai lontani.
In Europa nel corso dei secoli non si è salvato nessuno. La borsa italiana ha avuto vari momenti di euforia, come a metà anni ottanta, per dimezzare il suo valore in pochi mesi. Quando ancora la Cina quasi non esisteva come mercato finanziario, L'Asia emergente subì un supertracollo nel 1997, cui erano preceduti anni di gran pacchia. Per il Giappone la bolla più pazzesca scoppiò a fine anni ottanta. Gli americani sperimentarono quasi 20 anni di stallo dal 1966, dopo anni di crescite enormi, senza parlare dell'ultima bolla tecnologica. La storia è lunga, insomma. Oggi si stanno associando a questo club anche le due nuove stelle dei mercati: India e Cina. In realtà per la Cina non è la prima volta. Già sei anni fa subì un forte tracollo. Ma fu roba da pochi spiccioli e con pochi investitori. Il mercato che ha attirato la massa è iniziato da un paio d'anni, ma soprattutto nel 2007, quando anche in Cina è esplosa la mania dei grandi collocamenti presso il grande pubblico. E quello che da sempre vale nei mercati occidentali, si è rivelato ancor più vero in un mercato emergente che per dimensioni, oramai, compete alla pari con quelli più "evoluti": le offerte pubbliche di vendita sono delle trappole da cui è bene tenersi alla larga. Anche il motivo è sempre lo stesso: se un'azienda decide di quotarsi non lo fa di certo quando i prezzi dei suoi titoli sono a sconto, bensì quando sono assai cari. E chi compera quindi è probabile riceva più dolori che gioie. E più è pubblicizzato il collocamento più sonora sarà la mazzata. E' un po' semplicistico, lo so, ma la verità "scientifica" non è molto lontana.
A leggere le cronache di quello che è successo in Cina negli ultimi 12 mesi, sembra di essere tornati indietro di 10 anni, o forse di 80 se pensiamo agli anni '20.
Luca Vinciguerra a marzo scriveva commentando quel che avveniva dalle parti di Shanghai: "Oggi questa gente è amareggiata, delusa, disperata. Sono casalinghe, operai, studenti, disoccupati, coletti bianchi, pensionati. Molti di loro hanno investito in borsa tutto ciò che avevano; spesso somme modestissime. I più furbi, quelli che in autunno hanno sentito odore di bruciato e hanno liquidato tutto, si godono i frutti di uno dei rialzi più strepitosi nella storia della finanza mondiale (dalla fine del 2005 alla fine del 2007 l'indice di Shanghai ha moltiplicato per 5 il suo valore). Ma sono un'esigua minoranza. Il grosso dell'esercito dei piccoli azionisti è lì a leccarsi le ferite". Oltretutto ad oggi il mercato cinese è sceso ben al di sotto rispetto ai valori di marzo.
Credo che, al di là di tutti gli innumerevoli studi antropologici e teologici del mondo, la vera prova che discendiamo tutti da un unico Adamo risiede nell'incredibile identità di comportamento masochistico che il cittadino medio attua nei confronti del mercato azionario, senza distinzione di razza, epoca, cultura o livello di ricchezza. Che siano olandesi del Seicento, francesi del Settecento, americani dell'Ottocento, giapponesi del Novecento o Cinesi del duemila, nulla cambia. E dopo quattro secoli ancora si fatica a capire che ci sono due tipi di investitori. Quelli che usano le azioni come fossero fiche di un casinò, e che fanno la stessa brutta fine del frequentatore medio dei casino; e quelli che invece investono poco alla volta infischiandosene delle mode e dei collocamenti pubblici e stanno ad aspettare senza fretta il passaggio dei cadaveri dalla sponda del fiume. Anche per loro investire è giocare al casinò, solo che hanno la parte del banco.
Neanche gli "onnipotenti" cinesi, per ora, lo hanno capito.







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