Pubblicato il 12 dicembre 2007 su La Voce di Romagna
in prima pagina
di Simone Mariotti
"Parlare della fine di un amore significa comunque parlare
d'amore, e credo che, per iniziare a farlo, dobbiamo introdurre un corollario
che non va messo in discussione: il fatto che sull'amore è lecito sapere
di non sapere".
Chi parla, anzi, chi scrive è Umberta Telfener, psicologa psicoterapeuta,
docente alla Scuola di Specializzazione in Psicologia della Salute dell'Università
"La Sapienza" di Roma, e lo fa dalle pagine del suo ultimo, bellissimo
libro "Le forme dell'addio - Effetti collaterali dell'amore", appena
uscito per i tipi della Castelvecchi Editore, ideale prosecuzione di un suo
testo uscito lo scorso anno e già divenuto un piccolo classico "Ho
sposato un narciso" (Castelvecchi, 2006).
"Le forme dell'addio" è una riflessione e un'indagine, arricchita
da numerosi esempi tratti dalla sua esperienza di terapeuta, sugli effetti psicologici
di una delle situazioni sempre più frequenti nel mondo moderno: la fine
di una relazione, di un amore e dei traumi che (quasi sempre) ne derivano. Ma
poi si riesce anche a diventare più forti.
Dottoressa Telfener, nel suo capitolo sul "gioco relazionale"
lei scrive: "Metà del mondo passa la vita a difendersi dall'amore:
che tristezza, ma anche che danno". Siamo messi così male? Ci sono
così tante persone che fuggono dalle relazioni, o le temono?
Purtroppo sì. La paura delle relazioni fa parte della nostra cultura
al punto che il sociologo Zygmunt Bauman parla di una società liquida,
in cui il valore è quello di passare velocemente da una storia a un'altra,
senza fermarsi mai. E' chiaro che il fuggire sempre, la distrazione non sono
il modo per entrare in una relazione e sporcarsi le mani, che implica lacrime
e sangue, fatica, impegno, responsabilità, a volte anche sacrificio.
Anche un altro grande lettore della nostra epoca, Jacques Attali ci prospetta
un mondo poligamo trasparente e libero - e io aggiungerei rispettoso - in cui
ci sia una polifonia di relazioni contemporanee, costruite a rete, ma lo immagina
ancora lontano: in esso femminilità, maternità, procreazione,
desiderio diventano istanze assolutamente separate e scelte soggettive non codificate
dalle aspettative della società. Ancora, oggi, tradire è spesso
un segnale della paura di entrare in una relazione stabile e "impegnata"
e molte persone sfuggono ai rapporti volando di fiore in fiore.
Perché sostiene che "incontrare una persona con un attaccamento
sicuro è un dono che la vita ci può fare e va apprezzato"?
Chi sono queste persone e perché, evidentemente, scarseggiano?
Una persona con un attaccamento sicuro è una persona che ama e sa rimanere
in un rapporto, che valuta sé stessa, ma valuta contemporaneamente l'altro,
che apprezza il legame e crede che sia un valore aggiunto della propria vita.
Si tratta di persone poco difese e poco spaventate, che hanno avuto una base
sicura nella famiglia d'origine e tendono a creare una base solida per i propri
figli. Perché in questo periodo storico sono poche? Bella domanda. Mancano
dei valori certi da passare ai figli, anche le donne (e non lo rimpiango) hanno
molto a cui pensare e sono distratte dalla cura dei figli, la famiglia è
in disordine (per usare un termine della psicoanalista Roudinesco) e ridotta
al gruppo nucleare - con scarso-nullo aiuto delle generazioni e persone altre
- i giovani hanno paura del futuro e spesso agiscono una sessualità desessualizzata
(ginnastica e temporanea conferma di sé anziché intimità)…
La sua domanda mi fa entrare nel campo che sto studiando ora, il rapporto tra
uomini e donne e i diversi atteggiamenti verso l'amore….
L'ultimo capitolo del testo è intitolato "Suggerimenti per
non infelicitarsi ancora di più la vita" Tra questi ci sono due
cose che NON bisogna fare e che credo siano fondamentali: "Credere che
l'amore sia per sempre", cioè rifiutare l'illusione di necessaria
eternità, ma al tempo stesso "Credere che ogni amore debba finire
ineluttabilmente", cioè non dare per scontato che le storie debbano
terminare. Si sta però diffondendo, forse anche inconsapevolmente, forse
per via di un bombardamento sociale che va in questa direzione, la sensazione
che comunque la storia debba finire. Ma per quanto la statistica sia oramai
impietosa, se all'interno della coppia uno o entrambi pensano che la storia
debba necessariamente finire , non è in realtà già finita?
Ho sempre pensato che le storie possano finire (rifiuto dell'eternità),
ma che vadano vissute come se non dovessero finire (tentativo di raggiungerla).
E' un atteggiamento sbagliato, che porta a più sofferenza, o che crea
più possibilità di felicità?
Quello che propone è il giusto atteggiamento, quello di crederci e lottare
perché funzioni, fino a prova contraria. Io ammiro le coppie che riescono
a stare insieme nel tempo, credo che siano quelle che più sono anche
maturate sul piano individuale in quanto riuscire a rimanere implica sia fare
i conti con l'altro sia conoscere sé stessi sia mettere in atto costanti
sistemi di aggiustamento rispetto alla vita quotidiana. La sfida è quella
di non rinchiudersi in una fortezza affettiva ripiegata solo su interessi privati,
per aprirsi al sociale e far entrare il mondo. Ogni componente di una coppia
e di una famiglia ha bisogno di confrontarsi col mondo, di portare energia all'interno
del nucleo e informazioni. Credo alle coppie come sistemi aperti che lottano
per mantenere la loro identità che non rimarrà identica nel tempo.
Sarebbe bello imparare a ricontrattare le regole dello stare insieme ogni cinque-sette
anni. Sa che in Germania da un paio di mesi sono ammessi i matrimoni a tempo?
Credo che sia molto civile la possibilità di rinnovare un'unione anziché
darla per scontata e adagiarsi nella routine e nella pigrizia di un diritto,
che sfocia inevitabilmente in indifferenza e a volte odio o quantomeno inimicizia.
Veniamo ad un luogo comune femminile, che forse tanto luogo comune non
è, vista la quantità di donne che lo sostiene: il fascino dello
"stronzo". E' veramente così? Tra le sue pazienti ci sono donne
che aspirano ad essere un po' maltrattate, che vedono in tale comportamento
(spesso un'unione di egoismo e autoritarismo) un ingrediente fondamentale per
mantenere interesse nel rapporto? Francamente ho sempre considerato la ricerca
dello "stronzo" come un indice di patologia. L'amore romantico e dolce
prevale ancora, o aveva ragione quello che cantava "prendi una donna trattala
male"? O forse, parlando più seriamente (e non facendone una questione
di genere), il problema è che ci sono sempre più persone che presentano
quello che viene da lei definito come "Attaccamento disorganizzato (confuso)"?
Gli uomini e le donne si stanno avvicinando come comportamenti e modi di pensare:
gli uomini si stanno addolcendo e le donne diventano più assertive. Questo
fenomeno diminuirà le distanze e le differenze, vedremo se migliorerà
i rapporti o esaurirà ancora di più la curiosità e il desiderio
tra maschi e femmine.
Innamorarsi di uno/a stronzo/a mi sembra logico nell'adolescenza e comune ai
due sessi: un modo comodo per sentirsi coinvolti senza mettersi in gioco, la
possibilità di sperimentare con i sentimenti senza mettersi alla prova
e rischiare (e senza esporre un sé ancora fragile e spesso insicuro).
Innamorarsi di chi non ci vuole in età adulta rimane una scelta autoreferenziale
per continuare a rimanere in compagnia di noi stessi, il modo per proiettare
sull'altro tutto quello che desideriamo, come fosse uno schermo bianco, senza
dover scendere a patti con l'altro da noi. Senza dover mediare e modificarsi.
Quando lo fanno le donne a volte penso sia un retaggio biologico, un ritorno
alla natura del paleolitico, la ricerca del capobranco, dell'uomo forte e sfuggente,
la rinuncia a favore di un padrone - come diceva Simone de Beauvoir, il ritorno
esplicito all'ordine patriarcale maschile (sottomissione comunque a ideali maschili).
Si può ridurre tutto a donne che sono state amate "male" dal
padre? Credo che anche la società abbia la sua influenza, sia attraverso
la sempre diversa relazione tra i sessi sia attraverso l'idealizzazione dell'amore
e la pretesa che sia passione e mille altre cose insieme. Quale miglior modo
per provare la passione che innamorarsi di chi ci non ci ama costantemente ma
solo ad intermittenza? Noi diventiamo il punto fermo emotivo, la costante di
una danza che non annoia, che stupisce, che emoziona e fa soffrire: che riempie
di emozioni, anche se spesso negative.
Ma a lasciarsi si può imparare? Davvero si apprende ad essere
più forti, e felici?
Credo sia assolutamente fondamentale imparare a lasciarsi senza che sia la fine
del mondo e senza perdere sé stessi. Ogni volta che soffriamo per amore
è come se ci si aprisse l'occasione per sospendere la vita e pensare
a noi e al nostro vivere, alle nostre capacità a vivere. Credo che la
sofferenza amorosa non sia invano, ma un'utile occasione per fare i conti con
noi stessi e per ritrovarci, per intensificare un dialogo che non dovrebbe interrompersi
mai. Centrarsi vuol dire cercare un (nuovo) significato per sé stessi,
introdurre differenze che creino una differenza, poter cambiare e poter trovarsi
di nuovo. Vuole anche dire costruirsi come costante per sé stessi, diventare
il proprio referente, aprire un dialogo e farsi compagnia. Non a caso nella
versione rivista del libro "Ho sposato un narciso, strategie di sopravvivenza
per donne innamorate" (Castelvecchi 2007) evidenzio alcune tattiche per
centrarsi, perché la ritengo un'operazione fondamentale di ogni persona,
la capacità di star bene in propria compagnia e di avere progetti e interessi.
Insomma, siamo in un'epoca di passaggio e credo fermamente che l'amore che verrà
deve essere inventato di nuovo.