Pubblicato il 20 aprile 2005 su La Voce di Romagna
a pag. 17
di Simone Mariotti
C'era una volta una banca. Un uomo si avvicina e chiede con
gentilezza: "cara banca sono un po' a corto di soldi non è che mi
puoi fare un prestito"? E la banca rispose: "certo, ma tu che mi dai?".
Questa semplice rappresentazione spiega in modo chiaro quello che è stato
il principio regolatore che ha guidato, e guida ancora, la concessione del credito
e la razionale valutazione del rischio, quando però a prestare è
la banca.
La faccenda appare molto meno razionale se il rapporto si inverte e a proporsi
sul mercato bussando alle porte dei cittadini sono banche, aziende e gli stessi
stati nazionali.
Una delle grandi novità di questi ultimi mesi è stato il lancio
da parte di alcuni grandi emittenti (come la Francia, e Telecom Italia) di obbligazioni
con scadenza a 50 anni. Altrove vi è stata una progressiva ripresa di
emissioni trentennali, anche da parte di stati che mai si erano avvicinati a
queste scadenze, come la Grecia, o che avevano messo in soffitta il ricorso
a tali titoli, come l'Olanda. Altri si stanno organizzando. E la domanda per
queste emissioni matusalemme non è mancata. Ma la notizia forte è
che il rendimento aggiuntivo promesso a chi decide di sottoscrivere un bond
a 50 anni è solo una briciolina superiore a quello ricevuto per un prestito
trentennale. Perché?
La risposta cambia a seconda di quale sia il vostro ruolo, prestatore o debitore.
Se siete un potenziale debitore (banca, grande azienda, Stato) una cosa la sapete
molto bene: i tassi di interesse a lunga scadenza sono ai minimi addirittura
da 300 anni, e mai come oggi è conveniente emettere debito a tasso fisso,
e più è lunga la scadenza meglio è. Ovviamente c'è
la consapevolezze che i tassi risaliranno prima o poi, ma che ciò avvenga
tra sei mesi o tra due anni, poco importa, intanto io mi assicuro denaro per
50 anni ai tassi di oggi.
Il punto di vista del risparmiatore è più debole e viziato dalla
solita visione di breve. Siete come tutti alla ricerca di rendimenti più
elevati di quelli dei Bot, così scarni. Per qualche motivo siete convinti
che il modo non cambierà mai più e che la vostra scelta di prestare
soldi a scadenze fenomenali sia dopo tutto priva di rischi e che quel pur minimo
rendimento aggiuntivo sia comunque meglio che niente. Oltretutto avete sotto
gli occhi un dato incontrovertibile: negli ultimi dieci anni i titoli a lunga
scadenza hanno fatto proprio faville. Perché non proseguire? Siamo alle
solite. Si guarda al passato senza stare troppo a pensare che le condizioni
che hanno fatto lievitare i rendimenti dei bond sono svanite. Non ci si rende
conto di ciò che di brutto (molto brutto) potrebbe accadere al prezzo
dei lunghissimi titoli emessi oggi in caso di rialzo dei tassi (quando sarà
sarà, per un cinquantennale cambia poco) e di ripresa dell'inflazione.
Sono, questi, mesi ingarbugliati sul mercato obbligazionario globale tanto che
anche presidente della Federal Reserve americana Greenspan definì alcune
quotazioni come un "enigma".
Ma la domanda resta elevata anche da parte degli investitori istituzionali.
Perché?
Un fattore che a mio avviso rappresenterà in futuro un problema (se non
lo è gia) è quello della crescente indicizzazione dei portafogli
gestiti. Di gestori che cioè replicano la composizione di un indice di
mercato, per paura di sfigurare nella gara del rendimento. Ciò ovviamente,
mancando la contrattazione attiva, toglie efficacia la mercato a lungo andare,
e se una volta l'indicizzazione (soprattutto azionaria) era sempre vincente,
perché di nicchia, oggi stiamo indirizzandoci in un'epoca in cui gli
andamenti dei mercati sono sempre più influenzati dai creatori di indici
che dal mercato in se. Così, se una pesante serie di emissioni obbligazionarie
a 50 anni finiscono sul mercato tutti ne acquisteranno un po' per mettersi "a
benchmark".
Una criticità di questo comportamento la si è vista nel caso delle
obbligazioni argentine. Nonostante la crisi fosse galoppante, gran parte dei
fondi non ha posto in vendita a suo tempo i titoli del paese sudamericano che
aveva in portafoglio. Ciò avrebbe significato un forte scostamento dall'indice
di riferimento che era costituito, fino ad un giorno prima del default, appunto
per il 20% da tango bond. Se l'Argentina si fosse ripresa, la scelta di vendere
sarebbe stata sbagliata ed il gestore sarebbe stato cazziato e licenziato; mantenere
i titoli avrebbe invece semplicemente significato, in caso di default (com'è
stato), perdere in linea con la media di mercato, ed al gestore non sarebbe
stato addebitato nulla di male.
Seguire la moda quindi può essere fuorviante. Se la domanda istituzionale
di bond a lunghissima scadenza per un po' sarà elevata, l'emulazione
da parte dei privati può essere molto poco pagante. Idem per il mercato
degli high yield (le cosiddette "obbligazioni spazzatura", il cui
premio aggiuntivo chiesto attualmente per il loro rischio è ancora eccessivamente
basso, seppur in rialzo).
C'è poi la costante mina della bolla immobiliare, che deve essere tenuta
assolutamente sotto controllo dalla Banca Centrale Europea e che frenerà
un ulteriore allentamento del costo del denaro, spingendo verso un progressivo
rialzo dei tassi. Ed infatti è sempre più chiaro che l'affare
oggi è vendere immobili molto più che comprare, come di vede nella
simpatica vignetta dell'Economist di un mese fa (qui riprodotta; l'articolo
era invece intitolato: "Volete ancora comperare?") in cui un furbo
cagnolino se ne va con un bel gruzzoletto, dopo essersi liberato della sua piccola
proprietà immobiliare.
