Pubblicato il 7 settembre 2005 su La Voce di Romagna
in prima pagina
di Simone Mariotti
Se la settimana scorsa abbiano cercato di smorzare un po' quel
fascino etereo dell'investimento in oro, spaziando tra aneddoti su cercatori
d'oro, avventurieri e banchieri con la vocazione accaparratrice di Paperon de
Paperoni, oggi scopriremo che anche coloro che hanno accesso alle informazioni
più riservate, come i banchieri centrali o gli economisti di istituzioni
come il Fondo Monetario Internazionale si sono dimostrati spesso incapaci di
prevedere gli andamenti del mercato aurifero commettendo grossolani errori.
Errori a cui solitamente va incontro chiunque oggi si prefigga di portare avanti
una strategia di investimento centrata, non sulla pianificazione, coerenza e
valutazione del rischio, ma sulle proprie, o (ancora peggio) altrui, capacità
di anticipare le fluttuazioni di prezzo di un bene scambiato a livello internazionale,
sia esso il corso di un'azione, il rapporto di cambio tra due valute, il valore
dell'oro. Cominciamo questa puntata narrando alcune storie sui mitici tentativi
di accaparramento dell'oro o argento andati, ahimè, sempre maluccio.
Pochi anni dopo la mania delle azioni minerarie di metà ottocento, due
loschi figuri che rispondevano al nome di James Fisk e Jay Gould, tentarono
un'ardita impresa degna di Goldfinger, che puntava ad ottenere, attraverso un
complicato gioco di corruzione e raggiri (che prevedeva anche il coinvolgimento
del presidente americano Grant), il controllo dell'intero mercato dell'oro,
e per poco non vi riuscirono, scatenando il panico sul mercato e portando alla
rovina decine di broker e di banche che si erano esposte, vittime dei loro inganni.
Successe una specie di quello accadde ai fratelli Duke nel divertentissimo film
"Un poltrona per due" di John Landis (1982). Solo che Fisk e Gould
riuscirono a far pagare il loro conto ad altri. Cosa che invece non riuscì
ad un'altra "banda" di fratelli temerari, gli Hunt.
Il protagonista questa volta fu l'argento. Nel 1980 Nelson Bunker, William Herbert
e Lamar Hunt, ricchissimi petrolieri e proprietari terrieri texani misero a
segno il più grosso tentativo, per qualche mese riuscito, di accaparramento
di un qualsiasi bene mai avvenuto a livello mondiale nella storia dei mercati.
Arrivarono a controllare quasi un terzo della produzione globale di argento,
17 miliardi di dollari (ma loro miravano al totale), con una serie di massicci
acquisti sul mercato a temine (chiedendo la consegna fisica del bene) e paralleli
acquisti su quello a pronti, mirati a far calare l'argento in circolazione,
facendo schizzare i prezzi a livelli stellari. Ma il disastro li attendeva.
Le autorità americane smantellarono il loro castello di società
e di pretesti vari, e quelli che erano stati tra gli uomini più ricchi
d'america fallirono pochi anni dopo.
Ma gli Hunt non furono gli unici a rimetterci un bel po' di soldi con l'argento.
Anche il mitico Warren Buffett, da molti considerato il miglior investitore
del mondo, subì una delle sue pochissime sconfitte su un tentativo di
accaparramento speculativo sull'argento, che però non andò a buon
fine, nel 1998. Tuttavia la saggezza di Buffett gli impedì di esporsi
troppo ed oggi è ancora il secondo uomo più ricco del mondo.
Ma Buffett e gli altri, pur essendo nomi grossi della finanza, sono pur sempre
singole individualità, slegate dagli interessi di una nazione. Come si
sono comportate invece le istituzioni?
Nel punto più alto del mercato dell'oro, nel 1980, ad un prezzo di oltre
di 800$ l'oncia il segretario del tesoro americano G.William Miller disse che
non sembrava un momento appropriato per vendere, cosa che invece il tesoro aveva
fatto sino a pochi mesi prima e a prezzi molto più bassi. Anche il sistema
pensionistico dell'Alaska, la vecchia terra dei cercatori, acquistò nel
1980 dopo un primo calo dai massimi una tonnellata d'oro a 650$ e poi un'altra
alla fine dell'anno a 575. Decise poi di rivendere il tutto a nel 1983 a 414
dollari. Un vero affare!
Qualche anno più tardi, dopo che il prezzo era rapidamente ridisceso,
sia le banche centrali che il Fondo Monetario non brillarono quanto a tempismo
di mercato. Come ci ricorda l'economista americano Peter Bernstein "mentre
il prezzo dell'oro saliva dai 375 dollari l'oncia del 1982 ai quasi 500 dollari
toccati dopo il crollo del mercato azionario del 1987, le banche centrali effettuarono
poche vendite. Quando il prezzo scese a 350 dollari nel 1992 ne furono collocate
circa 500 tonnellate. Nel periodo compreso tra il 1992 e il 1999, tuttavia,
quando il prezzo precipitò sotto i 300 dollari, le banche centrali liquidarono
3000 tonnellate d'oro, ovvero 400 tonnellate l'anno. Per svendere non occorre
necessariamente essere dei dilettanti."
L'analisi di Bernstein si fermava al 1999. Ma le cose non sono molto cambiate
in tempi più recenti. La Banca d'Inghilterra per esempio, i cui dirigenti
di un tempo avevano trasformato la loro fede nell'oro in una ragione di vita
(il più scatenato fu Montagu Norman, che portò Churchill alla
fatale decisione del ritorno al sistema aureo nel 1925), decise un piano di
vendita triennale che tra il 1999 ed il 2001 avrebbe liquidato metà del
suo intero stock di metallo prezioso (tanto che oggi l'Italia possiede una quantità
d'oro 5 volte superiore a quella presente nei forzieri di Londra), e lo fece
svendendo ai prezzi più bassi degli ultimi 25 anni, anzi fu essa stessa
che, immettendo quella gran massa di oro sul mercato, contribuì non poco
al suo calo. I vecchi banchieri della City devono essere rivoltati nella tomba,
mentre Keynes dall'alto dei cieli si sarà fatto una bella risata.