Se Flaiano fosse ancora qui
Pubblicato il 24 novembre 2004 su La Voce di Romagna in prima pagina

di Simone Mariotti

"Come osate svegliarmi a quest'ora? Non sapete che sono l'abominevole uomo delle nove?"
Ennio Flaiano rivolto a Fellini e ad un amico che si erano recati a casa sua di primissima mattina.

Esattamente dieci anni fa, durante una delle mie (allora) frequenti visite alla nostra cineteca comunale, mi imbattei in un curioso personaggio che in qualche modo avrebbe cambiato la mia vita.
Ero sulla soglia d'entrata e non mi ero ancora reso conto di quante persone ci fossero nella sala, il "rumore" però era notevole. Alzai lo sguardo e vidi, divertito, che in realtà un'unica persona stava parlando al telefono. Era un signore che ritenevo sulla sessantina (scoprii poi che di anni ne aveva settanta). Alto, dalla voce imponente, con un cappello da passatore e lo sguardo presuntuoso. Con gli anni ho imparato che mangiare al ristorante con lui significa inscenare una specie di convivio in cui anche tutti gli altri avventori del locale diventano parte (passiva) del nostro dialogo, con suo straordinario piacere.
Dall'altro capo del telefono si intratteneva Tonino Guerra. Parlavano di certe foto, di appuntamenti, di Federico. Io, in disparte, mi misi a sfogliare un catalogo. Finita la telefonata, l'uomo mi si avvicina chiedendo se potevo aiutarlo a portare dentro la sala di fronte alla cineteca uno scatolone per lui un po' pesante. Lo feci volentieri. Stavo per salutarlo quando, con un tono estatico da dispensatore di grandi onorificenze, tanto da farla sembrare quasi una domanda retorica mi chiese: "già che ci sei, potresti darmi una mano per i prossimi due mesi a mettere su una mostra su Ennio Flaiano?"
Benedetto Benedetti non poteva che presentarsi in questo modo: gettandosi dentro la tua esistenza, non prima di averti fatto una seduta psicanalitica istantanea, e di elevatissimo livello, aver descritto la sublime decadenza del nostro tempo in tre parole appropriatissime, dissacrato ogni "sacramento" culturale, ed ahimè, avendo praticamente quasi sempre ragione. Lo sventurato rispose!
La mia grande amicizia con Benedetto iniziò così, al volo, per caso, inaspettatamente, come è bello che sia, come lo sono tutti gli incontri fondamentali che caratterizzano una vita.

La mostra che mettemmo su tra mille difficoltà, di cui in questi giorni ricorre il decennale, fu, senza falsa modestia, bellissima; soprattutto per la sua genuinità. I signori della nostra pubblica amministrazione, con qualche rara eccezione, non erano, ovviamente molto d'accordo. Dico ovviamente perché lo sbarramento di allora per chi non era allineato al pensiero unico era piuttosto pesantino. Tanto per dirne una, mi trovavo in uno scantinato del museo della città cercando di "corrompere" il custode a darmi di più di quei quattro chiodi che ci erano stati concessi. Avevo quasi ottenuto addirittura un espositore in più, quando arriva un assessore che si occupava della faccenda, di cui per pietà risparmio il nome. Ero vestito piuttosto male, impolverato e sudato; deve avermi perso per un uomo di fatica li per caso. Il custode assecondò la sua impressione dandomi una specie di ordine che mi permise di ascoltare insospettabile le simpatiche considerazioni dell'assessore: "Non permetta a quelli della Galleria dell'Immagine (io e Benedetto) di venire a prendere nulla; che si arrangino! Quella mostra meno gente la vedrà meglio sarà, tanto farà schifo".
La mostra, invece, resterà un'occasione perduta per costruire qualcosa di più grande, che con le nostre sole forze non potevamo fare, e anche, ad appena un anno dalla morte di Felini, per celebrare le gesta del nostro concittadino in modo alternativo, attraverso gli occhi dei suoi collaboratori e maestri. Ma, ahimè, già si era imboccata l'idea unica di tributare Federico affibbiando a qualsiasi iniziativa semplicemente il marchio di "felliniano".
Arrivarono proposte per esporre in altre città, ma, così come del catalogo (e non so quante persone ce lo chiesero), non se ne fece nulla. Ne parlò anche l'edizione romana del Messaggero e alla fine il Comune dovette cedere, prolungando un po' le striminzite due settimane che ci erano state concesse.
Tuttavia, quella mancanza di mezzi fu paradossalmente un enorme regalo. Relegata nelle due salette della Galleria dell'Immagine, senza un soldo neanche per il nastro adesivo, fu diversa e unica anche per questo. Lontano dall'essere un insieme di quadretti ben incorniciati e ben illuminati, la mostra, che proponeva una serie di materiale inedito (fotografico, letterario, editoriale, grafico) di Flaiano, era come se invitasse ad entrare in una specie di archivio storico di Cinecittà, brulicante di locandine appese una sull'altra, fotografie che tappezzavano ogni centimetro quadrato del muro, didascalie recuperate con la mia vecchia stampante in un velo di retrò che guardava in avanti, ma che in un momento ti faceva fare un salto indietro di quarant'anni senza che tu te ne accorgessi.
Era proprio questa la sensazione che ebbero due decani del giornalismo italiano come Giovanni Russo e Giulia Massari, che parteciparono entusiasti all'inaugurazione.
La Massari mi prese sottobraccio contemplando con gli occhi illuminati le vecchie foto della fantastica redazione de "Il Mondo" di Mario Pannunzio, dove lei nacque professionalmente a fianco di Flaiano allora caporedattore (che misurava con lo spago il menabò), raccontandomi piccoli aneddoti e pregandomi di fargli avere delle copie.
Una delle poche concessione che Benedetto ottenne dal Comune fu un'auto con autista per un giorno. Fummo così scortati sino a Roma per reperire del materiale.
Erano i primi tempi che frequentavo Benedetto e durante quel viaggio ebbi la marcata impressione che vivesse in un mondo parallelo, alternativo al nostro; e le tappe incalzanti di quella giornata indimenticabile non facevano che confermare la mia sensazione. In macchina leggo un vecchio messaggio del suo amico Sciascia che lo ringraziava per un certo racconto; vedo qualche fotogramma di un suo film con Helmut Berger. Poi, per "coprirlo", mi spaccio al telefono come assistente di produzione, come segretario particolare di un inventato impresario, come studente di storia del cinema per entrare, grazie ad un suo improvvisato pass, dentro i magazzini di Cinecittà.
Dopo un giro per le strade romane dove Benedetto aveva vissuto per quarant'anni, riempiendosi di quella cultura che gli trasuda da ogni poro, zingareggiando con Fellini, Flaiano, Pasolini, e tutto il mondo della dolce vita capitolina, giungiamo anche in via Margutta, a pochi metri da quella che era stata la casa di Federico.
In una villa d'altri tempi, come se fosse appena uscito da un film dei telefoni bianchi, elegantissimo nel suo gessato grigio, scendendo ovviamente dall'alto di una scalinata, con le movenze lente, ma decise come il suo tratto, il grande Nino Za si presentò al nostro cospetto. Quasi novantenne (sarebbe morto due anni dopo), aveva negli occhi una luce ancora viva e indagatrice.
Fu uno dei più grandi disegnatori d'Europa che tanta influenza ebbe sulla vita di Federico Fellini (si veda il fantastico brano riprodotto in questa pagina, prefazione per il catalogo di una mostra di Za), anzi, si può forse dire che tutto l'itinerario felliniano nacque da lui. Senza il desiderio di emulare Nino Za, chissà se Fellini avrebbe perseverato nel disegno? Ma senza disegno non avrebbe incontrato Flaiano; e senza Flaiano Federico non sarebbe diventato il grande Fellini.
In quella fresca giornata autunnale Za ci consegnò dei disegni e poi sparì, sfumando verso quel suo mondo etereo così come era arrivato. E quei disegni avevano fatto veramente la storia, non solo di Fellini, ma di Rimini.
Infatti, orgoglioso dei suoi progressi, lasciata la città natale, Federico era arrivato a Roma trovando spazio come disegnatore umorista per il giornale satirico "Marc'Aurelio" che, volle il destino, si trovava nella stessa palazzina della rivista delle Rizzoli "Oggi", diretta da Pannunzio, a cui collaborava anche Ennio Flaiano. Siamo nel 1939.
Il passo non sarebbe stato molto breve, anche perché il nostro riminese è poco più che uno sbarbatello (19 anni; Flaiano ne aveva 10 di più, ma erano dieci anni in cui il mondo era stato stravolto e parevano un'eternità). Ma quei disegni dicono molto di lui e Flaiano lo capisce. Lo segue, fino all'idillio professionale e umano.
Anni dopo sarà proprio Benedetto Benedetti che, durante la lavorazione de "I Vitelloni", riceverà e porterà a Fellini il telegramma con cui Flaiano l'informava di aver "Visionato primo materiale. Bellissimo. Avanti verso il capolavoro". La Strada invece non aveva mai entusiasmato Flaiano: "troppo cattolico e sentimentale". Era un tipo stano Ennio Flaiano, ipersensibile e incazzosissimo, tanto che anche Spadolini al tempo della sua direzione del Corriere della Sera, pur volendolo al giornale a tutti i costi, lo temeva come nessun altro e non osava insistere con lui. Una volta, in viaggio con la figlia portatrice di handicap e la tata, scese dal treno che li stava accompagnando a casa, in Svizzera, innervosito per un gesto di pietà da parte di un viaggiatore. Prese alloggio in un albergo per un paio di giorni, il tempo di far arrivare un trenino solo per loro senza altri passeggeri importuni. Gli costò una fortuna, ma era così. Lunatico, contraddittorio, insolente, geniale, profondamente triste. Con Fellini la collaborazione professionale si interruppe con "Giulietta degli Spiriti". Disse: "Federico si è convertito alla magia e quello è un campo in cui io non sono competente".
Il nostro percorso romano si concluse a casa di Ugo Pirro, uno dei grandi della sceneggiatura italiana. Ricevemmo un po' di consigli, del materiale, alcune foto e una promessa: una conferenza all'interno della nostra mostra. Promessa mantenuta, e riuscitissima. "Gelsomina? E' la madre di Forrest Gamp", disse ad una divertita platea.

E fu così che dopo tre settimane chiudemmo i battenti, purtroppo per sempre. Non senza rimpianti e con un po' di rabbia per qualcosa che poteva essere fatto vivere molto meglio a tutti i cittadini, per raccontare qualcosa di loro e della magia della loro città. Ricordo l'entusiasmo di Italo Roberti, grande violinista, e straordinario caricaturista, maestro di Fellini, che veniva spesso a fare un saluto e a portare disegni durante l'allestimento (aveva novant'anni e girava sempre in bici con le sue ingombranti cartelle), raccontando storie, aneddoti, vita della cultura riminese, del teatro ormai perduto.

Io ho proseguito con i miei studi di economia, mentre Benedetto ha continuato a vagabondare con il suo corpo e la sua mente tra Roma e la Romagna, tra la sua Perticara, Longiano e Rimini, a scrivere commedie, operette e racconti, come l'Invornita, che Manlio Cancogni, nella prefazione, paragona all'opera di Verga.
Uno dei suoi ultimi lavori è una commedia sul dualismo dell'essere riminese "L'importanza di sentirsi un altro", che prende spunto dalla curiosa vicenda della statua di piazza Cavour, nata come Papa, spacciata per San Gaudenzo ai francesi (e rimasta tale nella mente di molti riminesi), tornata ad essere Papa molti decenni dopo. Non so bene cosa ne sarebbe uscito, ma il progetto presentato "alle autorità" è stato, stranamente, respinto. Peccato.

 

 

Volevo diventare come lui

di Federico Fellini

Per noi vitelloncelli ginnasiali, il Grand Hotel di Rimini era la tavole della ricchezza, del lusso, dello sfarzo orientale. Quando, nei romanzetti che leggevo, le descrizioni non erano abbastanza suggestive da suscitare nella mia immaginazione visioni di scenari adeguati, io tiravo fuori il Grand Hotel, vedevo il Grand Hotel, mi figuravo il Grand Hotel. Un po' come fanno certi scalcinati teatrini che adoperano lo stesso fondale per tutte le situazioni; e così delitti, rapimenti, folli amori, il giardino dei supplizi, i quattro uomini giusti, il Gobbo di Nôtre Dame, la dea Kalì, Oliver Twist: tutto avveniva al Grand Hotel.
Ma perché ho rievocato questi ricordi? Cosa c'entra il Grand Hotel di Rimini con Nino Za? E' perché è proprio al Grand Hotel di Rimini che ho visto per la prima volta il già famoso caricaturista.
Vivevo allora una vita appartata, solitaria; cercavo modelli illustri, per giustificare il timore o il sentimento di inferiorità che mi impediva di mettermi in costume da bagno. Ero troppo magro: uno dei tanti soprannomi che avevo era quello di Ghandi: anche canocchia mi chiamavano, quel crostaceo scheletrico e fragile come il vetro, che però, a guardarlo bene, è simpatico, e in ogni caso, sulla brace è buonissimo. Insomma, in non ero capace di godermela come gli altri che andavano a guazzare nell'acqua e per ripicca mi ero dato all'arte. Avevo aperto con Demos Bonini una "Bottega dell'Artista". Si facevano ritrattini e caricature di signore, anche a domicilio. Io firmavo "Fe", e facevo il disegno, Bonini firmava "Bo", e ci metteva il colore. Avevamo fatto dei timbretti che premendo sulla carta lasciavano scritta la firma Febo. Ma il mio ideale era Nino Za, le cui caricature vedevo risplendere sulle sontuose copertine della Lustige Blätter all'edicola della stazione. Il giornale di Rimini aveva pubblicato una fotografia di Za, e io l'avevo guardato a lungo, ammirato, commosso.
La grande terrazza del Grand Hotel era difesa dagli sguardi curiosi dei poveracci da una cortina di piante profumate, con foglie grandi come scialuppe che dondolavano lievemente a ritmo di musica, e i colori del cielo erano verde-turchese e viola-dorato, come i tramonti dei film in technicolor. Il sax (che emozione la prima volta che abbiamo saputo che non si diceva "sassofono", ma "sax") mugolava perdutamente "Voglio vivere a Broadway", e Nino Za aveva la giacca di velluto blu con i bottoni d'oro, un foulard di seta attorno al collo, i capelli morbidamente ondulati, i baffetti e un sorrisone smagliante e distaccato, alla De Sica.
Lo guardavo trasognato da lontano. In quel periodo, tra mezzogiorno e l'una, sotto il sole d'agosto, completamente vestito, con giacca e pantaloni, affondavo i sandali con le calzette nella sabbia arroventata della spiaggia, girando da un ombrellone all'altro e mostrando con aria goffa i miei scarabocchi a della gente in costume da bagno, che se ne stava beata sdraiata all'ombra; forse qualcuno avrebbe accettato di farsi fare la caricatura, ma poi dicevano di no, indicando le mutandine, sorridevano, i soldi li avevano lasciati in cabina, troppo faticoso alzarsi... Qualche volta arrivava anche un pizzardone con il casco in testa; se lo toglieva asciugandone l'interno bagnato di sudore col fazzoletto e poi col mento, mi faceva segno di levarmi di torno, di non disturbare.
E Nino Za invece eccolo là, sulla terrazza del Grand Hotel, riposato, prendeva qualche appunto su un albo che teneva delicatamente appoggiato sulle ginocchia, guardando distrattamente la modella (erano sempre bellissime donne), poi chiudeva il quaderno senza far vedere niente di quello che aveva fatto e a bassa voce diceva che il ritratto sarebbe stato pronto tra qualche giorno; la signora si alzava ammirata, intimidita, gli sorrideva socchiudendo le ciglia, mentre il marito si affrettava a lasciare sul tavolino un assegno ripiegato, chiedendo scusa.
L'orchestra suonava "Seguendo la flotta", il cielo era diventato blu velluto, come la giacca del famoso disegnatore. Sembrava di stare a Los Angeles, chissà perché. Nino Za. I grandi alberghi. Il successo. Il portasigarette d'oro. Le scarpe inglesi. Lo invidiavo con tutte le mie forze. Le dive tedesche si prenotavano mesi prima per farsi fare il ritratto da lui: ricordate Zarah Leander con i labbroni frementi e la palpebra pesante di voglie inesauste? E Brigitte Helm? E cosa, quella li, come si chiamava? Certamente doveva aver fatto l'amore con tutte. Che rabbia! E l'invero a Cortina, l'Hotel Cristallo gli dava l'appartamento più bello, e il Natale lo passava a Berlino. Poi chissà, febbraio a Londra e dopo forse a Honolulu.
Lo invidiavo con tutti i miei sospiri.
Volevo diventare come lui.







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