Pubblicato il 19 febbraio 2004 su La Voce di Romagna
in prima pagina
E che giova aver tesoro,
s'altri poi non si contenta?
Che dolcezza vuoi che senta
Chi ha sete tuttavia?
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c'è certezza.
(Lorenzo de' Medici detto "Il Magnifico", dal Trionfo
di Bacco e Arianna, 1490)
Quello italiano è stato per 50 anni un capitalismo minorenne,
che ha avuto in Enrico Cuccia il suo unico grande tutore, e che ancora oggi,
rispetto al resto del mondo, ha troppa paura di ciò che ha a che fare
col numero 18. Una delle conseguenze più gravi di questa situazione prolungata
è stata l'assenza di una salutare cultura del fallimento, e la colpa
di questo va sicuramente cercata nell'origine della nostra democrazia, un po'
ambigua, troppo indecisa, vogliosa di America senza aver il coraggio abbandonare
del tutto quel focolare paternalistico che guardava a Mosca. Il tutto condito
con una soporifera salsa vaticana. C'è stato continuamente un eccesso
di certezza (alla faccia del Magnifico), una sorta della storiella di "al
lupo al lupo" al contrario, di un popolo abituato a credere che non ci
sarebbe mai stato bisogno di chiedere aiuto perché qualcuno lo avrebbe
fatto per lui.
Aziende decotte sono state continuamente tenute in vita, a spese del contribuente,
per opportunità politica. Così, a lungo andare, ha avuto il sopravvento
nella mente di tutti quel pensiero fatale del "tanto non fallisce",
rivolto ad aziende private (soprattutto se locate nella propria zona) o quell'altrettanto
deleterio "é troppo grande per fallire", rivolto a Stati come
l'Argentina; ma lo si era detto anche per la Russia nel 1998, per la Enron e
la Worldcom nel 2001/2002, per la colossale Beijing Enterprises nel 1997 (per
citare qualcosa nella tanto di moda Cina) e in dozzine di altre occasioni, a
partire dal tracollo della più grande banca d'America, la Jay Cooke &
Co, nel lontano 1873. L'unione di tutto ciò col desiderio di rendimenti
elevati e con la passività del parco buoi nazionale, che si è
sempre fidato a testa bassa delle parole del direttore o del funzionario di
banca di turno, attribuendogli competenze finanziarie molto superiori alle loro
reali capacità, ha portato ai disastri recenti.
Fino a pochi anni fa, e in buona parte ancora oggi, la regola ha funzionato
piuttosto bene, e gli operatori di banca stavano sul sicuro. Si collocavano
titoli di Stato italiani con cedole alte, gestioni patrimoniali (spesso inefficienti)
e costosi prodotti assicurativi. Non sempre un gran che per i clienti, ma il
fumo dei numeri annebbiava senza intossicare; si guadagnava poco nel concreto,
ma l'inflazione illudeva di alti ritorni (ho dei clienti che rimpiangono i Bot
al 20%, senza però ricordarsi che l'inflazione era al 21%). Poi, con
il calo dei tassi (e dell'inflazione) di fine anni novanta, l'ingresso nell'euro
ed una finanza statale un po' meno alla ponzi, è sorto un problema prima
inesistente e sconvolgente per gli sportellisti: ottenere un guadagno di facciata
che sembrasse perlomeno accettabile.
La sopra ricordata cattiva percezione del rischio e la mania, forse mondiale,
di fare di tutta un'erba un fascio, ha fatto il resto. In campo obbligazionario
per esempio, il mucchio dei titoli giudicati con un rating che andava da AAA
(giudizio massimo) a BBB- (giudizio limite prima di entrare tra i bond spazzatura)
sono stati spesso, se non sempre, percepiti come aventi tutti lo stesso rischio.
E' un errore madornale, anche perché i rischi non si limitano alla possibile
insolvenza, ma anche alla grande variabilità del prezzo!
In generale, non è affatto strano che una azienda giudicata BBB- (come
lo era Parmalat) sia fallita. Non è la prima volta che accade, né
sarà l'ultima. E' solo una questione di probabilità. Le agenzie
di rating sbagliano, ci sono conflitti di interessi, ma generalmente offrono
un buon punto di riferimento, storicamente ben documentato, purtroppo mai seriamente
utilizzato all'interno degli istituti di credito. Infatti, se diamo un'occhiata
al rating attribuito all'Argentina un anno prima del crollo, esso era a livello
B per l'agenzia Moody's. Ma quanti, tra bancari e investitori, si sono presi
la briga di andare a vedere cosa volesse dire B per Moody's? Leggo la definizione
di allora data dall'agenzia:
"I bond che sono valutati con la B generalmente mancano
delle caratteristiche di un investimento desiderabile.
La sicurezza sugli interessi e sui principali pagamenti o sul mantenimento degli
altri impegni contrattuali in qualsiasi intervallo di lungo periodo può
essere scarsa".
Dopo aver letto questa definizione, quanti avrebbero sottoscritto
in modo così massiccio i famigerati tango-bond? Le nozioni basilari da
sapere quando si tratta di investimenti non sono molte. Essere disposti a far
si che diventino veramente di tutti varrebbe di più di qualsiasi riforma
dell'autorità di vigilanza.
La colpa non è ovviamente solo delle banche: con dei clienti così
disposti a tutto e politici compiacenti non c'è stimolo a migliorare
né la qualità del servizio, né l'istruzione dei dipendenti.
Però delle banche tutti ne abbiamo bisogno e spero vivamente per la salute
di questo Paese che non sia più di moda tenere i soldi sotto la mattonella
come faceva Totò. D'altra parte, aspettare che i banchieri inizino a
cospargersi il capo di cenere con continuità porterà a parecchie
disillusioni! La strada più efficace passa sicuramente attraverso la
rimozione di quella loro aurea di sacralità che si portano dietro da
troppi anni, stimolando un comportamento più attivo dei clienti e cercando
di migliorare la cultura nazional/finanziaria di base. Il grosso problema è
che le dure lezioni del mercato non sono facili da digerire, e ci si continua
ad attaccare più alla geografia che all'economia. Facciamo un esempio.
Tanto Non Succede. Siete proprio sicuri di aver capito che è una frase
sbagliata? Provate a dare un'occhiata al vostro estratto conto e ditemi quanti
titoli emessi dalle vostre istituzioni o banche, locali e non, avete sottoscritto?
Magari obbligazioni subordinate, tutte non quotate, inefficienti, illiquide,
senza mercato. A già, dimenticavo: sono sicurissime, perché Tanto
Non Succede!
Chi tra voi sarebbe tranquillo nell'affidare i propri denari alla solidità
di un'azienda smaltatrice di rifiuti di una cittadina Spagnola? Sareste più
tranquilli con azioni della Cassa di Risparmio o con titoli della Wells Fargo,
una banca Californiana dal nome e dai "muri" sconosciuti, ma quotata
in borsa? La differenza finanziaria potrebbe essere in molti casi sottilissima,
ma il punto di vista dell'investitore medio credo che non lo sia. Ma Tanto Non
Succede, perché le nostre aziende, e le nostre banche, sono sempre lì,
sotto i nostri occhi, hanno contribuito alla ricchezza della nostra città
e non ci tradiranno mai.
Deve essere quello che pensavano i 5000 risparmiatori che avevano investito
nella CoopCostruttori di Argenta, vicino a Ferrara. Una delle più grandi
aziende edili d'Italia, un'istituzione che affondava le sue radici nella tradizione
di quella terra. Una cooperativa rossa in una terra rossissima, ovvero una botte
di ferro cinta di acciaio. Devono aver pensato proprio così quelle persone
che da generazioni utilizzavano la cooperativa come una banca; così fino
a poco tempo fa quando, in un "curiosissimo" silenzio generale, la
CoopCostruttori ha fatto flop, falsando i bilanci e rovinando migliaia di persone
prima che venisse scoperto un buco da 2 mila miliardi di lire.