Pubblicato il 15 dicembre 2004 su La Voce di Romagna
in prima pagina
di Simone Mariotti
Qualche tempo fa, mi è capitato di imbattermi in un
vecchio articolo di un grande divulgatore di cose economiche d'oltre oceano,
Paul Krugman. Abilissimo come al solito nelle sue argomentazioni (ve ne consiglio
caldamente la lettura), in coda al suo ultimo libro, "La Deriva Americana",
Krugman riportava una sua interessante dissertazione sull'evoluzione della cucina
inglese.
I nostri amici di Ravenna ancora non avevano la fortuna di leggere La Voce,
ma devono sapere che la scorsa estate si scatenò un curioso dibattito
sulla bontà della cucina romagnola. Il nostro Nicholas Farrell, come
lui stesso ha ricordato giorni fa, scrisse una serie di invettive (prontamente
respinte dai lettori e anche dalla sua morosa) contro la nostra ristorazione
aggiungendo pure che le prelibatezze locali fossero qualitativamente inferiori
nientemeno che alla notoriamente pessima cucina britannica. Che affronto!
Ed allora, visto che le spanzate saranno lo sport preferito da molti per i prossimi
15 giorni, e che di cose vomitevoli in giro ce ne sono già abbastanza
(dal silenzio internazionale sul Darfur, a quello di Berlusconi sulle porcate
del suo amico Putin in Ucraina), rendiamo l'atmosfera più leggera, provando
a riprendere, solo per oggi, quel simpatico dibattito culinario con un'opinione
neutrale e di grande levatura, ma con un approccio non trattato la scorsa estate,
quello economico-sociale. Si scoprirà che la storia dei presunti pregi
della cucina britannica, che Nick sbandierava quasi come sue medaglie al valore,
aveva un fondamento di verità, anche se però… Ma prima ascoltiamo
Krugman.
"Per chi si ricorda i vecchi tempi, il cibo è la
cosa più strabiliante della nuova Inghilterra. La cucina inglese era
meritatamente famosa per quanto era cattiva - pesce e patatine unti, pasticci
di maiale gelatinosi, e caffè che sapeva di risciacquatura. Ora non solo
è facile trovare di meglio, ma è diventato persino difficile trovare
i terribili piatti tradizionalisti inglesi. Cos'è successo?
Forse la prima cosa da chiedersi è come mai la cucina inglese fosse così
cattiva. Probabilmente la colpa è stata dell'industrializzazione precoce
e dell'urbanizzazione. Milioni di persone avevano rapidamente abbandonato le
campagne e la disponibilità agli ingredienti tradizionali. Peggio ancora,
lo avevano fatto in un tempo in cui le derrate alimentari affluivano alle città
in maniere ancora primitive dal punto di vista tecnologico: la Londra vittoriana
aveva già più di un milione di abitanti, ma la maggior parte di
ciò che mangiava arrivava in chiatte trainate da cavalli. E così
la gente comune, ma anche le classi medie, era stata costretta a una cucine
basata su cibi in scatola (piselli sfatti!), carni conservate (da cui quei pasticci),
e ortaggi da radice che non avevano bisognosi essere refrigerati (ad esempio
le patate, il che spiega le patatine fritte).
Ma perché il cibo è rimasto così cattivo anche dopo l'introduzione
di vagoni ferroviari e navi frigorifero, cibi congelati (sempre meglio che in
scatola), e infine la spedizione aerea di pesce e verdure freschi? Adesso stiamo
parlando di economia - e dei limiti delle teorie economiche tradizionali. Perché
la risposta è che certamente i britannici delle città avevano
la possibilità di mangiare decentemente, ma che non conoscevano più
la differenza. La capacità di apprezzare il buon cibo è, in senso
assolutamente letterale, un gusto acquisito - ma dato che l'inglese tipico,
poniamo nel 1975, non aveva mai mangiato un buon piatto, non lo chiedeva. E
visto che i consumatori non lo chiedevano, nessuno glielo dava. Anche se c'erano
sicuramente alcune persone che avrebbero preferito qualcosa di meglio, non erano
abbastanza per raggiungere la massa critica.
Ma poi le cose sono cambiate. In parte può essere stato a causa dell'immigrazione
(anche se le prime ondate di immigrati si sono semplicemente adattate agli standard
inglesi - mi ricordo di essere stato nel 1983 Londra in un ristorante italiano
abbastanza costoso, in cui chiedevano ai clienti di avvertire in anticipo se
volevano che la loro pasta fosse cotta sul momento). La ricchezza crescente
e le conseguenti vacanze all'estero possono aver avuto una maggior importanza
- come puoi continuare a far mangiare salsicce a chi ha assaggiato il foie gras?
Ma a un certo punto il processo ha cominciato ad autoalimentarsi: si raggiunse
un numero sufficiente di persone che conosceva il sapore del buon cibo per far
si che negozi e ristoranti iniziassero a fornirlo - e ciò ha permesso
a sua volta a una quantità crescente di persone di raffinare le proprie
papille gustative.
Ma cosa c'entra tutto questo con l'economia? Beh, il punto è che un sistema
di mercato dovrebbe essere al servizio dei consumatori, dandoci quello che vogliamo
e massimizzando così il nostro benessere collettivo. Ma la storia del
cibo inglese ci insegna che anche in un aspetto così basilare come il
nutrimento, un'economia di libero mercato può rimanere intrappolata per
un periodo prolungato in un cattivo equilibrio, nel quale le cose buone non
vengono richieste perché non sono mai state fornite, e non sono fornite
perché non sono abbastanza richieste.
E al contrario un buon equilibrio può infrangersi. Immaginate un Paese
con una buona cucina che viene invasa da fornitori di cucina scadente che si
rivolge a gusti più rozzi. Si può dire che ognuno ha diritto di
mangiare quello che vuole, ma restringendo il mercato per i cibi tradizionali,
queste propensioni possono renderne più difficile la reperibilità
- e perciò più difficile anche imparare ad apprezzarli - e questo
può essere un male per tutti. Gli inglesi sono spesso divertiti dall'isteria
dei loro vicini più prossimi, che sono terrorizzati dalla diffusione
delle ciambelle a spese dei croissant. C'è stata grande ilarità
quando i francesi hanno scoperto con orrore che il cibo ufficiale della Coppa
del Mondo era McDonald's. Ma le preoccupazioni della Francia non sono completamente
sciocche (sono sciocche, ma non completamente)."
C'è da fare ora una considerazione. Lo stralcio che
avete letto fu pubblicato su Fortune il 20 luglio 1998, ben sei anni fa. E'
vero che i processi sociali come i cambiamenti culinari sono lenti nel loro
divenire, ma è anche vero che negli ultimi 10 anni lo scambio di informazioni
e di persone a livello globale si è moltiplicato. Se quindi la cucina
inglese sembrava già ottima più di sei anni fa, c'è da
ritenere che le cose possano solo essere migliorate nel frattempo. Uno a zero
per Nick.
Più seriamente, quello che è successo agli inglesi in bene - un
aumento della qualità - può capitare a noi in male. Se è
vero che gli inglesi hanno imparato molto dalle cucine straniere di qualità,
e tra queste (senza nulla togliere a quella indiana) la parte del leone l'hanno
fatta Italia e Francia, è anche vero che se cala la domanda di qualità
in queste cucine storiche (per esempio a causa dei prezzi proibitivi), non ci
si deve meravigliare se Mc Donald dovesse sponsorizzare la prossima edizione
della manifestazione riminese "Gradisca".
E' un po' quello che è accaduto al nostro turismo, sempre più
massificato, e che sta accadendo anche alla cucina, non solo romagnola. Un mesetto
fa fu lanciato il primo allarme sui pomodori in arrivo dalla Cina. Faranno forse
schifo, e chissà se sono tutti "veri" pomodori, ma se costano
poco la massa li comprerà e si abituerà al loro sapore; poi sarà
la volta dell'olio di oliva (quello di palma è da tempo subentrato al
burro di cacao in molte preparazioni dolciarie), della pasta e così via.
E fino a che da noi, nel senso di Italia (e la Romagna non fa assolutamente
eccezione), regnerà il "magna più che se po' che te fa bbene!",
resteremo un paese qualitativ-culinariamente a rischio.
Tornando alla polemica locale, per fronteggiare le sue sparate, avevo "sfidato"
il Farrell in un duello servito sugli argentei piatti prelibati del ristorante
"All'Insegna del Leon d'Oro" di Montegrimano. Penso che i gestori
del locale siano ancora disponibili; ed allora, per dirla con il nostro direttore:
"En garde monsieurs, incrociate le forchette!