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Il Boss delle torte e i difensori messicani del cibo italiano



Pubblicato il 17 ottobre 2012 su La Voce di Romagna

di Simone Mariotti

C’e un reality americano che io ignoravo totalmente il cui titolo è Il boss delle torte (Boss Cake, in originale), ma che in Italia è piuttosto popolare e trasmesso dal canale Real Time. Narra le vicende di una famiglia italo americana di pasticceri, i Valastro, in cui Buddy è il boss e prepara torte spettacolari. Non mi soffermo sui dettagli perché non è una recensione televisiva che voglio fare.
Sono partito da Buddy Valastro e dai suoi dolci perché pochi giorni fa mi trovavo negli Stati Uniti, precisamente nel New Jersey, in un paesino situato proprio di fronte a New York dal quale si ammirano le più belle vedute di Manhattan: Hoboken. E’ una piccola cittadina in cui lo stile italo-americano è di casa, un po’ perché è il paese natale di Frank Sinatra, il cibo italiano fa faville ed è lì che si trova (l’ho scoperto solo per caso sul posto) anche la storica pasticceria in cui è ambientata la serie televisiva, la Carlos’ Bake Shop, aperta nel 1911 dall’italiano Carlo Guastaferro, e rilevata dai Valastro negli anni sessanta. Ci passavo davanti tutti i giorni e non mancava quasi mai un capannello di turisti pronti per uno scatto, mentre all’interno i pomposi, burrosi e variopinti dolci della casa mettevano in fila decine di clienti con il numerino in mano, disposti a fare anche mezz’ora di fila per essere serviti.
Io e Ilaria siamo entrati un giorno la mattina presto quando ancora non c’era quasi nessuno per provare le “delizie” di questo fenomeno, ma già a prima vista, perlomeno per due italiani come noi, i dolcetti esposti non erano particolarmente invitanti, e il sapore molto poco straordinario, almeno per un italiano.
Ma ad Hoboken, come detto, l’Italia faceva faville. A colazione un giorno ci siamo fermati in un simpatico negozietto sulla cui tenda esterna campeggiava “italian specialities”. Ma non fu la scritta che ci attirò, bensì il fatto la specialità vera del posto era il bagel, una ciambellina di pane, dolce o salata, di origine ebraica, molto popolare a New York e in altre grandi città. In quel negozio “italiano” ve n’erano una ventina di tipi, ai quali potevi aggiungere beveroni a base di latte, caffe americano, patatine e varie altre schifezzine. Il personale era costituito unicamente da ispanici, e c’era quindi da meravigliarsi che la scritta esterna non presentasse i soliti errori di spelling tipo “macaroni”, “raviali” ecc.
Ma di “Italian Deli” made in Messico era piena la zona. E sempre a Hoboken ci sono due pizzerie di un altro classico italo americano, Grimaldi’s, una delle più celebri pizzerie di New York e d’America, dato che da Brooklyn si è allargata sino al Nevada. Ma quello di Hoboken fu il secondo storico ristorante ed era quasi sotto casa nostra. La cosa divertente è che nei loro depliant “spiegano” come la pizza venga meglio con il forno a carbone, quello a legna infatti non è in grado si sprigionare gli stessi aromi. Sarà, ma la gommosità della pasta e la plasticità della mozzarella che abbiamo trovato non sono proprio una costante delle migliori pizzerie.
A Hoboken forse si può osservare un’America più americana di quanto non sia quella di New York, miscuglio globale di razze, culture, sapori e stili. E dai dolci di Buddy alle pizze di Grimaldi alle tante scritte italianeggianti, si conferma quello che è evidente da tempo ovunque (trovai al stessa situazione in Asia anni fa): l’idea del cibo italiano piace moltissimo, ma il cibo italiano è quasi sparito, e le sue icone sono gestite da non italiani.
Ma c’è un’aggravante che va consolidandosi con il passare delle generazioni: l’idea che quel cibo italiano, la pizza su tutti, non sia più neanche di origine italiana, ma, appunto, solo in stile italiano, e sempre più persone nel mondo, giovani soprattutto, credono che la pizza sia un prodotto nato in America, e a Philadelphia è stato appena aperto il primo museo della pizza, pizza americana ovviamente. Nulla di nuovo, appunto.
E’ che appena tornato in Italia, subito travolto da quelle sempre più oscene miserie dei politici che stanno affossando il paese (il desiderio di ritorno alle preferenze elettorali espresso il giorno dopo una clamorosa e reiterabilissima vicenda di compravendita delle stesse con la criminalità è sintomatico), mi chiedevo se sia davvero così sbagliato o dannoso che almeno un surrogato di quel che era il gusto italiano venga copiato e stravolto, ma in qualche modo mantenuto, mentre un manipolo di politici che affligge il paese sta facendo affondare ogni speranza che qualcosa di genuino resti davvero anche da noi.
Io credo tuttavia che ci sia ancora possibilità di riscatto per noi, e se in giro per il modo sulle vetrine dei luoghi del cibo la parola italian è forse la più diffusa (magari assieme a chinese e indian), non v’è da rammaricarsi. Ma anche se ci sono problemi ben peggiori sia nel mondo e in Italia (e peggio per quelli che credono di mangiare italiano mentre addentano un bagel al lampone), il disfacimento della nostra immagine culinaria all’estero, così importante anche a livello economico, non va sottovalutato, ed è uno dei tanti frutti della diffusa incapacità italiana di occuparsi di quel che non sta sempre davanti agli occhi o necessita di pianificazione a lungo termine, come nel caso dell’energia, del consumo territorio, delle fogne, delle carceri, ecc. E anche quindi di come replicare con idee nuove ai pasticcini venduti dai compaesani di Frank Sinatra.



I turisti in fila per una foto davanti alla Carlo's Bakery (o Carlo's Bake Shop) di Hoboken, New Jersey (USA)
La Carlos Bakery di Hoboken - Carlos Bake Shop



 
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