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Tobin Tax: un altro sogno utopistico a occhi aperti



La Voce di Romagna, 16 maggio 2012

di Simone Mariotti

La finanza oggi non è che sia esattamente un soggetto popolare e simpatico ai più. Nel 90% dei casi, forse anche 95%, si ignorano completamente la sua funzione e i benefici che essa ha portato e può ancora portare. Ma il lavoro mediatico micidiale portato avanti dai media da anni sull’esaltazione della sola componente veramente complicata della materia (come i derivati), ha reso quasi impossibile ogni tentativo di difesa.
Da anni scrivo, sostengo e cerco di spiegare a tutti che la trappola più grande in cui il piccolo risparmiatore o i semplici cittadini possono cadere è quella di bersi la panzana che è tutto astruso e inaccessibile se si parla di finanza, in modo tale da rigettare ogni stimolo individuale di comprensione, finendo per subire passivamente qualunque attacco arrivi dal mondo bancario-finanziario, ritenuto a prescindere non affrontabile.
Non si ragiona, insomma e si ascolta solo quello che stimola i sogni e i desideri di rivalsa, quelli sì destinati a rimanere tali. Un esempio cardine di tutto ciò è dato dal caso di James Tobin (1918-2002), uno dei più grandi economisti del Novecento, e Nobel nel 1981.
Nel 1958 Tobin diede un importantissimo contributo allo sviluppo della teoria di portafoglio, che insegna come effettuare le scelte di investimento, pubblicando sulla Review of Economic Studies un articolo (Liquidity Preference as Behaviour Toward Risk) che, per riconoscimento di due grandi guru della finanza teorica ancora in vita come William Sharpe e Harry Markowitz (entrambi Nobel nel 1990), fu di notevole stimolo per tutta la ricerca successiva. Detto in parole molto povere, Tobin invitava semplicemente a non mettere tutte le uova in un solo paniere, a diversificare, insomma, una lezione banale che, pare pazzesco, in tanti ancora oggi faticano a comprendere. E’ questo il suo contributo maggiore, e di gran lunga il più importante, almeno per le tasche e le vita di ogni piccolo risparmiatore, che grazie a questa regola avrebbero evitato fior di batoste.
Ma di Tobin, che fu grandissimo economista, critico continuatore dell’opera di Keynes, fiero avversario del monetarista Milton Friedman, consigliere di Kennedy insieme a John Galbraith, il popolo che rigetta la finanza ed è ipnotizzato dalla naturale antipatia che la materia è capace di suscitare, si ricorda altro.
L’economista americano è infatti anche il padre della Tobin Tax, l’icona abusata prima dal movimento no-global, poi da un po’ tutti i politici in cerca di facile consenso. E’ l’amatissima tassa sulle transazioni finanziarie (in realtà valutarie, nella sua proposta), che ogni due minuti entra nei programmi politici, vedi anche quello Hollande. Peccato che Tobin propose questa tassa nel 1972 e se da allora di fatto non è stata mai applicata un motivo c’è, ed è che non è così semplice né applicarla né farla rispettare né impostarla in modo tale da non produrre più danni che benefici.
Come Tobin stesso disse in un’intervista rilasciata poco prima di morire: “le due questioni – imposta sui movimenti di capitale e lotta alla povertà – non hanno niente in comune … la mia tassa non può costituire un colpo contro i presunti mali della globalizzazione”. Il suo scopo era quello di buttare un po’ di “sabbia negli ingranaggi”, limitando le speculazioni contro le banche centrali, e quindi contro le valute, più che altro dei paesi emergenti. Paradossalmente, il suo messaggio era pro-global perché si prefiggeva giustamente di cercare di facilitare il processo di integrazione economica internazionale dei paesi più arretrati, limitando gli abusi destabilizzanti, frutto delle sole speculazioni di breve periodo. Ma dal ’72 a oggi, appunto, è restata solo una provocazione che Tobin stesso sapeva essere di difficile applicazione, tanto più in un mondo iper tecnologico come quello di oggi, in cui o la si applica in modo molto tenue, limitando quindi il gettito (e di fatto rendendola non certo adatta a salvare i destini del mondo), o provoca un immediato spostamento dei flussi finanziari in quei paese pronti a ricevere i tassati dell’occidente, come i paesi asiatici più evoluti o quelli emergenti del medio oriente, poco interessati alle nostre diatribe frutto di popola vecchi che non vogliono mollare l’osso del loro tenore di vita insostenibile.




 
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