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I teorici della decrescita sono dannosi all'ambientalismo



Pubblicato il 21 ottobre 2009 su La Voce di Romagna in prima pagina

di Simone Mariotti

Qualche giorno fa a Forlimpopoli è stato premiato il filosofo-economista francese Serge Latouche, da anni il caposcuola dei teorici della decrescita felice.
Uso questo piccolo evento come pretesto per spendere due parole su un curioso movimento, evoluzione di un certo tipo di ambientalismo, che ha unito concetti di moda anche tra i conservatori, come il superamento del PIL quale indice di benessere, alcune proposte di buon senso, come l'uso dell'acqua del rubinetto e l'eliminazione della plastica (entrambe le cose stanno iniziando a essere messe in pratica in alcune parti del mondo, dall'Australia all'India) e, purtroppo, palesi forzature ed estremizzazioni che ne minano alla base la credibilità e che hanno un'origine spesso ben definita, tipica anche di altri movimenti ambientalisti, e che porta questi soggetti a essere dannosi alla stessa causa ambientale.
Premesso che diverse cose che sostengono i teorici della decrescita sono di buon senso e andrebbero messe in pratica, diverse delle loro riflessioni non prendono in considerazione l'altra faccia della medaglia. Facciamo qualche esempio
Uno dei must del movimento è l'azzeramento del viaggio delle merci, soprattutto agricole, che però ha senso solo se riferito all'interno di un paese ricco come l'Italia (dove si tenta poi in qualche mordo di ridistribuire la ricchezza con gli ammortizzatori sociali), dove lo spreco di mangiare a Rimini le zucchine prodotte in Sicilia e in Sicilia le zucchine prodotte a Rimini è evidente. Ma applicato su scala globale (forte è la matrice no-global del movimento) vuol dire massacrare gran parte delle popolazioni povere del mondo che vendono i loro prodotti agricoli a noi, che già sussidiamo in modo esagerato l'agricoltura a scapito loro, ai quali invece oramai dovrebbe essere delegata la funzione di produttori agricoli del mondo. Nel nostro piccolo, inoltre, azzerare il viaggio vorrebbe dire mai più banane e caffé, per esempio, che non possono crescere nel nostro clima.
Ma anche gran parte delle cose più importanti che diamo per scontate, per esempio le macchie per la TAC o per la risonanza magnetica, oggi indispensabili, sono state possibili unicamente grazie agli investimenti delle cattive multinazionali che, operando a livello globale, hanno la possibilità di fare i colossali investimenti necessari a quel tipo di sviluppo tecnologico, che se dovevamo aspettare i proventi del solo localismo i nostri medici sarebbero ancora lì a usare il chinino e poco altro.
Dove sta la falla di questo movimento?
La spiegazione di tutto ciò è che questi signori hanno un'origine ben definita, tutt'altro che ambientalista. Sono gli orfani culturali del millenarismo politico, della fine del mito salvazionista del socialismo reale. Non è un caso che fu negli anni ottanta, quando l'ideale marxista subì i colpi letali, che si iniziarono a vedere i primi segni di questo processo.
Alberoni in un suo articolo dell'83 ricordato dallo psicoanalista Luigi De Marchi nel suo libro, Lo shock primario, scriveva: "In questo momento di svolta della cultura marxista in Italia sono perciò portato a domandarmi a che cosa condurrà la perdita di un rifugio sicuro e considerato inviolabile (...) Una delle ipotesi che si possono fare è che molti marxisti finiranno nei movimenti religiosi".
Questa fu infatti la strada che seguirono alcuni, e fu come un ritorno alle origini. Infatti, un'altra deriva che prese piede poco dopo fu quella del radicalismo ecologico. De Marchi lo spiega benissimo nella sua analisi psicopolitica, facendo notare come "il mito naturalista è, insieme a quello rivoluzionario, l'altro grande mito millenarista con cui il pensiero moderno ha cercato di rimpiazzare i millenarsimi religiosi".
Quello che io posso rilevare oggi, non essendo uno psicanalista, è constatare la perfetta realizzazione delle analisi demarchiane in questo nuovo filone pseudo ambientalista che, proprio perché alla ricerca (in buona fede) di risposte ad altri bisogni, non vede certe palesi contraddizioni, rischiando non solo di mancare la soluzione di un problema che resta reale, e cioè non tanto la sopravvivenza del mondo, quanto il suo precario stato di salute, ma addirittura di danneggiare la causa, catalizzando reazioni ostili da chi non sente le stesse esigenze millenariste. Naturali loro alleati sarebbero i movimenti religiosi, se non fossero loro stessi dei concorrenti nell'accaparrarsi adepti.
Esiste però, per fortuna, un gruppo di economisti-filosofi veri, soprattutto di origine asiatica come Sen e Dasgupta (ma non solo loro) che affrontano il problema della schiavitù del Pil e dei destini del mondo su basi molto più rigorose e reali, non avendo alle spalle rimorsi ideologici.
Quello per la decrescita può essere un movimento con delle valenze recuperabili e utili, ma deve perdere la sua natura di teoria sostitutiva di un mito perduto che nell'animo dei suoi ideatori ed estimatori ancora ha.




 
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