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Perché l'Italia non odia De André?



Pubblicato il 14 gennaio 2009 su La Voce di Romagna in prima pagina

di Simone Mariotti

Questo è un paese che da anni guarda in televisori a 16/9 programmi che continuano ad essere tutti trasmessi in 4/3. Lo fa ostinatamente perché ha comprato la tv in 16/9, e anche se potrebbe vedere in 4/3 preferisce osservare un mondo sformato pur di restare nel calduccio di questa falsa modernità: "tanto ti abitui subito". E non è una piccola cosa, perchè la tv non è una piccola cosa da molto tempo. E' un paese in cui alla purezza del contenuto prevale la regolarità del contenitore, camaleontica rappresentazione di come la forma continui a prevalere sulla sostanza. Dove oramai sono brutte e robotiche anche le veline, il simbolo di quel "bene effimero della bellezza" e della cultura dell'immagine degli ultimi 20 anni.
Questo però è un paese che, oggi, adora Fabrizio De André. Tante celebrazioni si sono susseguite nell'ultima settimana, in tv, in radio, nelle case, nelle osterie, nelle strade, nelle carceri o nei tanti rifugi dei suoi perdenti e vinti.
Era il migliore, lo si sa. Ma perché la sua poetica piace così tanto? Forse perché troviamo in lui qualcosa che abbiamo dimenticato, o qualcosa che abbiamo voluto dimenticare e che trovandocelo davanti non riusciamo più a rinnegare? Ma allora perché non odiarlo? Come uno che arriva mentre guardi il tuo programma preferito bello distorto e ti reimposta lo schermo sui 4/3, e ti senti a disagio, e non ti piace più.
Sappiamo che all'abito che non fa il monaco non crede nessuno. Ma se cose così le rima De André, se le ascoltiamo da lui, allora ti tocca a non ignorarle, e riconosci meglio la tua dote di ipocrisia, la tua svogliata noncuranza.
"Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior". Già, bello, basta che valga solo per gli altri! Sareste contenti se vostro figlio fosse quell'illuso che va dalla puttana con gli occhi color di foglia a pregarla di maritare? O anche solo la frequentasse come amico? E per vostra figlia, meglio un perdente buono che magari finisce a pescare con un solco lungo il viso aiutando assassini in fuga o un bel vincente in carriera? Ma non è una condanna la sua, perché il giustizialismo non era proprio nelle sue corde con nessuno, a nessun livello morale, ma una spinta alla riflessione, al confronto/contraddizione, fino alla potente celebrazione anche dell'estremo, come dell'amore furioso e cieco che muore contento lasciando sgomenta la vanità:

E mentre il sangue lento usciva / e ormai cambiava il suo colore / la vanità fredda gioiva / un uomo s'era ucciso per il suo amore.
Fuori soffiava dolce il vento / tralalalallatralallalero / ma lei fu presa da sgomento / quando lo vide morir contento.
Morir contento e innamorato / quando a lei niente era restato / non il suo amore, non il suo bene / ma solo il sangue secco delle sue vene.

Una delle sue canzoni più amate (sondaggio Corsera) continua a essere "Il testamento di Tito", cosa affascinante in un paese così opportunisticamente pio, che cela una voglia di ribellione alla quale non si ha forza, neanche psichica, di dar corpo. "Nella pietà che non cede al rancore, padre ho incontrato l'amore". Pietà? Non cedere al rancore? E poi il perdono cristiano... e la sua capacità giustificare l'altro diverso, la difficoltà di non arrendersi, di ascoltare il cattivo… Ma se io vado in giro a proporre l'abolizione dell'ergastolo (un controsenso umano e costituzionale, che si alimenta solo col poco edificabile sentimento della vendetta eterna) non riscuoto mai tanta popolarità.

Prima pagina venti notizie / ventuno ingiustizie e lo Stato che fa / si costerna, s'indigna, s'impegna / poi getta la spugna con gran dignità / mi scervello e mi asciugo la fronte / per fortuna c'è chi mi risponde / a quell'uomo sceltissimo immenso / io chiedo consenso a don Raffaè

In una delle trasmissioni che ho visto giorni fa, Fabrizio diceva che puoi essere impegnato a parlare della guerra o mieloso a cantare dell'amore di Marinella, della sofferenza o della gioia, ma non ottieni nessun risultato. Non c'era mai in lui l'illusione di cambiare il mondo. Gli piaceva sentirlo vivo, credo, un timido che amava le masse in movimento, in contestazione, ma che a loro non si univa mai. Un anarchico, non distruttivo, che andava con serenità e inquietudine, forza e fragilità per la sua direzione ostinata e contraria, cosa che assai pochi dei suoi estimatori hanno il coraggio, e purtroppo l'intenzione vera di fare. E allora una buona dose di umana ironia in tutta questa messe di riconoscimenti credo ci sia, come disse anche un altro cantore di perdenti, Chaplin, quando l'America in coro l'omaggiò con l'Oscar alla carriera.

Come tanti tra i grandi, De André continuerà ad avere successo perché spara a salve contro la nostra coscienza e la nostra debolezza, e riesce a farlo sempre, anche con una semplice ballata come quella di Michè, a cui non fanno il funerale per che "dei suicidi non hanno pietà" (mi ricorda qualcosa).
Lo scoppio ci ferma per un po', giusto il tempo per poter vedere le cose buone che si nascondono anche (non solo) nel letame. Ma quando il disco finisce, meglio lasciare la poesia lì, e avere una bella carta di credito, un "tranquillizzante" carcere pieno zeppo, una variante urbanistica orrenda… ma così comoda! E poi lascia stare quella battuta sul Papa, che non si sa mai.

Andrai a vivere con Alice che si fa il whisky distillando fiori / o con un Casanova che ti promette di / presentarti ai genitori / o resterai più semplicemente dove un attimo vale un altro / senza chiederti come mai, / continuerai a farti scegliere / o finalmente sceglierai.

Ad ascoltare Fabrizio si sta meglio; si riesce a piangere forte se l'amore non ti sente, e io quella puttana di "Via del campo" la sposerei, se mi liberassi della mia ipocrisia.




 
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